lunedì 28 gennaio 2008
In relazione alle visite guidate che svolgo regolarmente all’interno dei “Sotterranei dei Gesuiti”, ho necessariamente dovuto documentarmi su quella complessa e discussa realtà denominata “Santa Inquisizione”. Penso che sia sempre necessario, infatti, che colui che racconta qualcosa al pubblico (anche se non pagante) debba essere attentamente formato ed informato su quello che sta dicendo. Ritornando all’argomento in questione, ho scoperto come leggendo qualche libro di divulgazione, attingendo all’impressionante mole di dati presente in Internet e consultando qualche esperto via posta elettronica, il lavoro di ricerca possa essere anche abbastanza facile.
Il tema mi ha sempre affascinato e possedevo già qualche saggio sulla specifica materia. Ho dovuto solamente approfondire alcuni aspetti e verificare alcune situazioni, scoprendo alcune cose abbastanza interessanti.
Il periodo storico in cui hanno operato i tribunali dell’Inquisizione è abbastanza vasto, in pratica si va dall’inizio del 1200 alla prima metà del 1700. C’erano poi degli ordini religiosi che si dedicavano specificatamente a questa attività, come i Domenicani ed i Francescani. Molto spesso, ci si immagina l’Inquisizione come un organismo segreto e misterioso, ma questo non corrisponde al vero: si trattava di un’istituzione che aveva come fine la repressione dell’eresia e dei comportamenti contrari alla religione cattolica romana. Per ottenere questo, era necessario seminare paura e terrore, e quindi le pene inflitte ai condannati erano pubbliche ed eseguite davanti ad una platea la più vasta possibile. Certo, per ottenere le confessioni, si usavano tecniche alquanto crudeli e raffinate, ma bisogna dire che la giustizia “civile” - in quei periodi - non era certamente da meno. Un altro concetto fondamentale è poi che il potere religioso, se non altro per evidenti motivi di carattere morale, aveva bisogno del potere laico per infliggere le pene: l’inquisizione giudicava, ma affidava al “braccio secolare” l’esecuzione della sentenza. Da considerare che i tribunali erano istituzioni che possedevano una propria organizzazione “burocratica”: venivano promulgati editti pubblici, si redigevano precisi verbali sulle indagini svolte e le motivazioni delle sentenze venivano sempre lette davanti al popolo. Questo significa che - di norma - ci sono sempre state prove documentali sull’esistenza e sull’operato dei singoli Tribunali inquisitori.
Nei primi secoli l’Inquisizione avviò la sua opera nell’intento di arginare l’eresia, colpendo Catari, Albigesi, Ebrei, Mori mussulmani, Valdesi e protestanti. In seguito l’attività si dedicò all’arginamento della stregoneria e della magia.
Se focalizziamo l’attenzione sulla possibilità che un Tribunale dell’Inquisizione abbia operato nei Sotterranei della chiesa di Santa Maria Maggiore, dobbiamo necessariamente confrontarci con le seguenti quattro considerazioni: per prima cosa la Compagnia di Gesù ha sempre avuto un ruolo più che marginale nell’Inquisizione, lasciando ad altri ordini tali incombenza. Seconda cosa, un ipotetico Tribunale avrebbe potuto operare a Santa Maria Maggiore solamente dalla fine del 1600, epoca molto tarda per quanto attiene all’attività dell’Inquisizione. La terza considerazione riguarda, poi, la totale assenza di documenti relativi all’insediamento ed all’operato di un Tribunale a Trieste: la semplice mancanza di questi atti - sempre presenti negli altri insediamenti - fa ritenere ben difficile una sua esistenza. L’ultima considerazione riguarda, infine, il ruolo dei Gesuiti a Trieste in una precisa fase storica: certamente un freno a quella che poteva essere l’eresia del momento (il protestantesimo e la "riforma"), ma tale azione avveniva attraverso il potere “politico” dell’ordine, che esercitava la propria attività di “controriforma” attraverso il controllo dell’educazione e della cultura locale.
Per i motivi sopra esposti, personalmente ritengo molto difficile la presenza di un Tribunale inquisitorio operante nella Camera Rossa dei “Sotterranei dei Gesuiti” ed ho avuto il piacere di ottenere qualche conferma alle mie ipotesi anche da famosi studiosi dell’argomento, operanti presso l’Università di Trieste.
Alla luce di queste conclusioni, i sotterranei perdono definitivamente il loro fascino? Direi proprio di no. Continua sempre ad avere una certa rilevanza, oltre alla verità storica, anche la “tradizione popolare” che è stata costruita da tempo su questi ambienti ipogei. Non ci sarà mai stato il Padre inquisitore, avvolto nel suo mantello scarlatto, a torturare i malcapitati prigionieri, ma nulla toglie che tanto si è detto e tanto è stato scritto in merito. E’ degna d’attenzione, quindi, anche la “leggenda” che ruota attorno a questi sotterranei, di cui è possibile seguire il filo e ricostruire i principali passaggi evolutivi. L’importante è affiancare a tale leggenda anche la verità storica, analizzando nel giusto e corretto contesto quanto è stato tramandato su questi strani ed affascinanti vani sotterranei.

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giovedì 24 gennaio 2008
Ci sono grotte che, nella vita di un gruppo speleologico, contano maggiormente di tante altre. Non sono necessariamente le più profonde o le più estese, ma sono quelle che hanno visto la profusione di più impegno, affiatamento e sacrificio, e quindi hanno riservato superiori soddisfazioni.
Se penso all’Adriatica di qualche anno fa, mi viene in mente l’inghiottitoio dell’Arco Naturale (n. 538 FR). La zona è quella di Pradis Grotte (nel vicino Friuli) e la cavità era quella che avevamo visitato varie volte, anche con i corsi di speleologia. Un giorno, però, ci siamo resi conto che il rilievo allora disponibile era alquanto diverso dalla reale morfologia della grotta e vari rami non erano nemmeno riprodotti. Ci siamo così impegnati nella completa revisione del rilievo, con numerose uscite finalizzate all’esplorazione di tutte le diramazione ed alla raccolta dei dati numerici descrittivi. Abbiamo controllato palmo a palmo il ramo principale, abbiamo visitato e documentato le varie vie secondarie (spesso molto strette) ed abbiamo risalito numerosi camini. Il risultato complessivo è stato un rilievo che ha portato lo sviluppo ad oltre 800 m, per una profondità accertata di 79 m.
Particolare soddisfazione è stata quella di rintracciare un nuovo ramo ascendente che, dalla profondità di circa 60 m, risaliva quasi fino alla superficie, presentando una strettoia abbastanza selettiva ma permettendo di raggiungere un’ampia caverna inclinata. Quando abbiamo concluso le operazioni di rilevamento, c’erano ancora tre punti interrogativi legati a presunte prosecuzioni che bisognava verificare. Una di queste si apriva al di sopra dell’ultima caverna presente prima del sifone terminale ed è stata da noi in seguito raggiunta e rilevata. Un’altra possibile prosecuzione si sviluppava alla base dei pozzetti d’accesso, ma in questo caso qualcuno - negli anni - ci ha preceduto, rilevando un breve ramo ascendente. Anche la terza presunta prosecuzione è stata verificata da altri. Siamo arrivati nella caverna armati di tutta le attrezzature necessarie per una risalita “in artificiale”, ma qualcuno aveva già infisso una serie di chiodi ad espansione per raggiungere la finestra in questione. Controllando il rilievo, però, ho in seguito scoperto che il ramo era brevissimo, per cui è stata forse più accettabile la delusione di vedere che altri avevano già fatto la risalita, rispetto a quella di armare per primi la stessa risalita per poi trovare solo pochi metri di nuovi passaggi.
Certo, l’inghiottitoio dell’Arco Naturale è una bella grotta, con acqua, passaggi in arrampicata, brevi pozzetti e grandi caverne. Penso sia perfetta per avvicinarsi alla particolare categoria delle grotte “bagnate” presenti in Friuli. Conto di ritornarci quanto prima, sia per fare foto sia per accompagnare i miei giovani amici in questa cavità che ha comunque rappresentato - anni fa - un momento importante per la SAS.

L’immagine, risalente a trent’anni fa e non molto riuscita, mostra un passaggio dell’inghiottitoio dell’Arco Naturale (Foto SAS)

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lunedì 21 gennaio 2008
Il primo a rimanere conquistato dalla Grotta Nuova di Villanova (n. 323 FR) è stato l’amico Bruno Vittori (Bobo). In seguito sono stati coinvolti anche altri speleo, finché non si sono raccolte forze sufficienti per contribuire fattivamente all’esecuzione del nuovo rilievo della cavità. L’impresa è stata quindi avviata come un’attività di collaborazione fra più gruppi, ovvero il C.S.I.F. di Udine, il G.T.S. di Trieste e la S.A.S. sempre di Trieste.
Nella pianificazione del lavoro, a noi sono toccate alcune diramazioni laterali, come il ramo Battisti, ed una complessa zona di cunicoli che si apriva in corrispondenza della parete destra del ramo principale. Controlla una fessura, verifica un passaggio ed ecco che quelle che sembravano diramazioni di poco interesse sono diventate un articolato ed esteso complesso di passaggi e caverne. Fatte alcune punte conoscitive, è stata quindi organizzata la prima spedizione “di massa” dell’Adriatica, per procedere nell’esplorazione definitiva di questi rami ed iniziare la loro topografia. All’epoca si potevano anche organizzare uscite con la presenza attiva di una ventina di speleo, cosa che oggi è di ben difficile attuazione in qualsiasi gruppo speleologico cittadino. Preparati i materiali, una domenica ci siamo trovati, infatti, in una ventina di amici, pronti per “l’assalto” alle nuove prosecuzioni della cavità. Scesi lungo il ramo principale, abbiamo per prima cosa affrontata la strettoia posta all’inizio del “ramo del Makita”. E proprio qui sono iniziate le prime defezioni. Dopo aver superato lo stretto passaggio, abbiamo preso atto di come un primo gruppetto di speleo aveva dovuto rinunciare, non riuscendo a superare l’infida strettoia. Ma eravamo solamente all’inizio, in quanto altri due punti dalle esigue dimensioni ci dividevano dai rami che dovevamo esplorare e rilevare. Anche al secondo ostacolo alcuni compagni dovettero dichiarare forfet ed il numero degli esploratori si faceva via via più esiguo. Siamo arrivati, finalmente, alla terza fessura, quella per me più ostica e difficile. Anzi, quando ho voluto scrivere alcune righe su cosa si prova quando si ci infila in una stretta spaccatura della roccia, mi sono ispirato proprio a questo difficile passaggio. Morale della favola, siamo partiti in venti, ma siamo arrivati solamente in quattro. C’ero io, Bruno Vittori, Aldo Fedel e un quarto amico di cui non ricordo il volto. Quella è stata un’uscita lunga, faticosa e complicata, dalla quale siamo comunque usciti con una conoscenza migliore del complesso sotterraneo e con molti fogli sporchi di fango contenenti i dati numerici del rilievo di quei rami profondi.
Questo succedeva alla domenica. Ricordo che al martedì - giorno nel quale ci si ritrovava per lavare i materiali - sono entrato in sede, dove molti amici stavano dedicandosi a varie attività: chi controllava le corde, chi sistemava i sacchi, chi puliva il materiale di rilievo. Tutti erano seri ed impegnati nelle loro mansioni. Guardando bene, però, ho notato che tutti avevano attaccato alla maglietta una specie di stemma, quelli che oggi vengono comunemente chiamati i pins. Si trattava di un logo circolare, a sfondo giallo, che raffigurava un serpentello che guardava con aria stupita una specie di fessura dalle strette dimensioni. Sopra il disegno capeggiava, in caratteri rossi, la scritta "Villanova, no grazie!
Era stata quella la risposta ironica dei vari compagni che, non riuscendo a superare le strettoie, aveva deciso di non farsi più coinvolgere nell’esplorazione di grotte dalle dimensioni così esigue. Pur sorridendo, in quel preciso momento abbiamo capito che il rilievo della cavità sarebbe rimasto a carico dei pochi “strettoisti” disponibili ed è stato così che, per qualche tempo, un gruppetto alquanto ristretto, ma molto affiatato, ha lavorato da solo nei rami interni della Grotta Nuova di Villanova. Oggi di quell’attività rimane il ricordo delle belle giornate passate insieme ed un rilievo che ancora oggi è consultabile presso il Catasto delle Grotte.
(Foto Guglia)

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giovedì 17 gennaio 2008
Devo confessarlo. Nei miei racconti di fantasia ho la tendenza a costruire i personaggi basandomi su persone reali. Quando parlo di Sara, per esempio, penso a qualcuno che conosco bene, così come quando scrivo di Marco. Le vicende narrate sono completamente inventate, ma certe caratteristiche o particolarità dei protagonisti sono ricavate dai corrispondenti soggetti in carne ed ossa. Ritornando a Marco, ho scritto un racconto nel quale ha fatto la fine del topo ed un altro nel quale il destino gli ha riservato un finale forse anche peggiore. Per l'affetto che porto all’amico ispiratore, voglio ora trascinare questo personaggio di fantasia in una situazione la più gratificante ed appagante possibile. Il risultato è quello che vi riporto di seguito.

Una grotta da sogno

Marco possedeva varie certezze relativamente alla sua lunga attività speleologica, ma quella più chiara e precisa riguardava la sua sfrenata passione nei riguardi dello scavo che aveva intrapreso in un dolina del Carso triestino. Un punto interessante, già segnalato dagli esperti ed in corrispondenza del quale era possibile rinvenire un potente soffio d’aria in occasione delle piene del Timavo.
Tutto era cominciato quasi per gioco, con un piccolo assaggio fra le pietre a seguire il sospiro del fiume ipogeo ma, con il tempo, l’attività di scavo si era trasformata in una vera e propria missione. Con costanza ed ostinazione, assieme al suo fidato amico, Marco aveva spostato massi, estratto terra, spaccato rocce e puntellato pareti, fino ad arrivare a quasi quaranta metri di profondità. Per lui, alla fine, non era tanto importante il dislivello raggiunto, quanto la solidità del cantiere e la sicurezza della struttura sotterranea nella quale operava.
Il giovane dedicava allo scavo alcune serate alla settimana, con qualsiasi tempo e clima, e procedeva nei lavori con sempre vivo entusiasmo ma senza aspettarsi risultati immediati.
Quel lunedì, sempre accompagnato dall’amico fidato, era sceso per controllare la base del pozzetto in corrispondenza del quale si erano fermati la volta precedente. Marco stava cercando di rompere una lama di roccia con la mazzetta, quando sentì nell’aria uno strano rumore. Era come un rimbombo lontano, una specie di cupo boato. Tese meglio l’orecchio per cercare di identificare l’origine di tale rumore, finché una strana vibrazione scosse tutto l’ambiente nel quale si trovava. Con un sussulto più forte, sembrò che il pavimento si alzasse all’improvviso, per poi sprofondare velocemente. Marco rimase come sospeso su una specie di cengia, mentre tutto attorno si potevano vedere massi e rocce che si sbriciolavano. La polvere si alzò come un sipario su tutta la scena, appena illuminata dalla scarsa luce dello speleologo. Ci vollero vari minuti prima che la situazione si stabilizzasse e che ritornasse una visibilità sufficiente. A questo punto, Marco ebbe la possibilità di osservare meglio attorno a se: si trovava su un terrazzo sospeso sopra un grande vano. La frana aveva tolto di mezzo una vecchia occlusione, formata da detriti accumulatisi nei millenni. Ora, il passaggio si era finalmente liberato e l’accesso alla caverna era stato ripristinato. La prima cosa che Marco notò fu la leggera luminescenza che permeava quel vuoto, una specie di luce opalescente che permetteva di vederne l’intero sviluppo: non si trattava di un ambiente grande, l’unica parola possibile per descriverlo era immenso! Si poteva scorgere il perimetro dell’enorme sala che si perdeva a centinaia di metri di distanza. La grotta era caratterizzata da imponenti gruppi calcitici, con stalattiti, stalagmiti e colonne che raggiungevano varie decine di metri di altezza. C’erano vaschette piene d’acqua, o meglio, si poteva parlare di veri e propri laghetti azzurri e profondi. Marco, con qualche difficoltà, si calò lungo la parete e raggiunse il pavimento. Da una parte si poteva vedere, forse duecento metri più in basso, scorrere un grande fiume che lo speleologo riconobbe subito - pur incontrandolo per la prima volta - come il mitico Timavo. Iniziò la lenta discesa, ammirando le tante strutture cristalline che lo circondavano. Osservando più attentamente una pozza d’acqua, Marco si accorse che al suo interno vi erano delle forme di vita. Avvicinandosi, poté osservare alcuni esemplari di proteo, ma dalle caratteristiche decisamente diverse dal solito: un colorito più scuro, quasi marroncino, e dimensioni straordinarie, quasi il doppio di qualsiasi esemplare finora rinvenuto. Gli animali non sembravano spaventati dalla presenza dell’uomo e si fecero tranquillamente avvicinare. Giunto nei pressi dell’acqua, Marco notò la presenza di altre creature: c’erano diafani pesci dalle strane escrescenze, crostacei dalle forme insolite ed alcuni gamberetti trasparenti di proporzioni straordinarie. Quello era il paradiso per qualsiasi speleologo in generale, ma in particolare per chi era appassionato di biologia …
Facendo questi pensieri, Marco si accorse, però, che una specie di fremito stava nuovamente salendo dal pavimento. Inizialmente solo una leggera vibrazione, poi dei veri e propri sussulti che facevano tremare tutto quanto. Forse un terremoto, oppure un assestamento geologico, …
Ancora uno scossone e Marco vide sopra di sé la faccia dell’amico che lo guadava divertito, mentre con una mano lo stava scuotendo energicamente. Va bene la grande familiarità raggiunta con quegli ambienti angusti, ma come era possibile addormentarsi alla base di quel pozzetto, con tutto quello che c’era ancora da fare? L’amico non era sicuro, ma mentre stava raggiungendo Marco, che stava sonnecchiando addossato alla fredda parete, gli era parso di scorgere un sorriso e di sentire le parole appena sussurrate “ … che bello, che bello …”. Ma è risaputo che tutti gli speleo sono esseri strani, per cui non c’era da preoccuparsi. L’importante, adesso, era svegliarsi, darsi una mossa e cominciare a scavare. Il lavoro non mancava di certo …

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posted by Paolo at 18:09 | 0 comments
lunedì 14 gennaio 2008
Come ho già riferito, una volta si cantava molto di più. Le manovre in grotta ed i lunghi avvicinamenti erano spesso scanditi da cori (talvolta anche di una certa gradevolezza armonica), che facevano riferimento ad un repertorio molto vasto.
Curiosamente, più che nei canti tradizionali o di montagna, si spaziava nella musica leggera d’attualità, anche se spesso si trattava di quella etichettata con il termine “impegnata” (allora si usava questa definizione).
Ricordo che quando usciva un nuovo LP (erano tempi in cui imperversava il vinile e non si parlava ancora di CD), nelle settimane seguenti si dava sfogo alle velleità canore riferendosi all’ultima novità discografica, non dimenticando di avviare opportuni dibattiti sull’autore e paragonando la recente produzione a quella passata.
C’erano periodi nei quali i cori si ispiravano ai cantautori italiani (come Edoardo Bennato, Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini o Francesco De Gregori), oppure a complessi che suonavano il rock progressivo.
Uno di questi complessi che andava per la maggiore era il Banco di Mutuo Soccorso, gruppo adeguatamente impegnato e dalla musica mai banale.
Ricordo intere uscite in grotta basate sui pezzi del Banco.

Tu ora se vuoi,
puoi andare
oppure restare e unirti a noi…

Diceva il ritornello del brano intitolato “Cento mani e cento occhi” dal disco Darwin (1972), e questa frase diventava quasi uno slogan che rafforzava la sensazione di appartenenza al gruppo.
Devo dire che, in certe situazioni, le cose si facevano anche abbastanza imbarazzanti, come nel caso di alcuni solisti (io era fra quelli) che cantavano (o cercavano di cantare) interi brani che presentavano indiscusse difficoltà sia per quanto riguardava la complessità dei testi che per le lunghe parti musicali problematiche da riprodurre con la sola voce. Interminabili suite come “Dopo ... niente è più lo stesso”, oppure “Canto nomade per un prigioniero politico” , sempre del Banco, potevano riuscire comprensibili - quando intonate lungo la risalita di un profondo pozzo - solamente a chi conosceva perfettamente il pezzo in questione, altrimenti il tutto si trasformava in una dubbia performance con gorgheggi improbabili e strane parole rimbombanti nel buio della grotta.
Come detto, però, allora c’era non solo la precisa conoscenza dei vari brani (testi e musica), ma anche la voglia di parlarne, di confrontarsi e di discutere. Una situazione ben diversa rispetto ad oggi, dove impera la martellante musica disco o dove il massimo della originalità si può trovare in alcuni agghiaccianti pezzi di death metal.

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posted by Paolo at 17:57 | 0 comments
giovedì 10 gennaio 2008
La mia attività in montagna si è quasi sempre svolta all’interno del territorio italiano. Solo raramente mi sono spinto al di fuori dei confini, debordando di qualche chilometro in territorio francese, svizzero, austriaco o sloveno, quando la morfologia delle montagne che salivo si adagiava a cavallo di due paesi. Uscite all’estero, quindi, non me ne ricordo.
O meglio, mi sovviene solamente una bella escursione fatta sui monti del Pindo (in Grecia) nell’anno 1981. Lo scopo dell’uscita, in quel caso, era prettamente speleologico - la discesa del pozzo denominato Provatina - ma il vagare per l’altopiano innevato, in un freddo e terso clima primaverile, è stata un’esperienza gratificante. L’altipiano di Astraka si erge alle spalle di una serie di contrafforti verticali, denominati Papingo Towers, che scendono quasi fino alle gole del fiume Vikos. Superato il dislivello di questo tratto iniziale un po’ ripido ed impervio, si giunge sul pianoro soprastante che, con lievi ondulazioni, si estende a vista d’occhio. Non pensate alle proporzioni del paesaggio che possiamo trovare qui da noi, tutto è ampio ed esteso, e lo sguardo si può espandere per chilometri in ogni direzione. Girovagando per questo altipiano (nel nostro caso stavamo cercando l’ingresso della grotta) abbiamo spesso raggiunto il margine delle pareti strapiombanti, con scorci di panorama verso la valle sottostante davvero superbi. Siamo giunti anche a quella che viene considerata la cima più alta - altimetricamente sarà vero, ma si tratta di un semplice cucuzzolo tondeggiante - denominata Gamila Peak (2.497 m) .
Grande vista tutt’intorno, senza alcuna difficoltà tecnica.
Ci siamo subito fatti una foto, che vi propongo, nella quale si possono vedere - partendo da sinistra - il sottoscritto, Ferruccio Giannini e Paolo Pezzolato (Fox), ritratti sulla cima in questione. (Foto Guglia).

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martedì 8 gennaio 2008
Pur essendo il mio blog un ricettacolo di vari pensieri relativi al mondo del sottosuolo, ho già fatto nel passato qualche piccola eccezione. Di seguito voglio farne un’altra, nel senso che - per una volta - non si parlerà di grotte. E’ con grande orgoglio, però, che presento una breve poesia scritta da mia figlia che, se continuerà così, supererà di gran lunga il suo vecchio padre. Brava Michela e grazie di tutto.

Passi lenti e titubanti nel bosco,
la luce pallida della luna che filtra dalle oscure chiome,
brezza che silenziosa e inquieta da vita ad ombre sconosciute,
il battito insistente del cuore
l’unico impercettibile rumore,
il flebile ed accelerato respiro,
lo sguardo che si posa attorno
alla ricerca di uno spiraglio
che fugga dalla tenebra
e plachi l’ignoto
riportando calma e luce,
come la luna in una notte stellata
quando altra consolazione non c’è che guardare in alto,
ammirare le stelle incastonate nel buio cielo notturno
e assaporare quella sensazione di pace ed infinito
che ti apre il cuore e rende il mondo un posto migliore …

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mercoledì 2 gennaio 2008
E’ recentemente giunta un’ulteriore buona notizia riguardante l’acquedotto Teresiano di Trieste. La Società Speleologica Italiana ha avviato da qualche tempo un importante progetto a livello nazionale intitolato "Carta degli antichi acquedotti ipogei", attraverso il quale si intende procedere alla raccolta organica di informazioni sugli antichi acquedotti italiani, realizzando un database contenente tutti i principali dati descrittivi, allo scopo di mettere a disposizione dei vari organismi interessati un valido strumento di consultazione riguardante le opere idrauliche antiche presenti sul territorio.
Attualmente sono stati inseriti nella lista nazionale 120 acquedotti, distribuiti in tutte le regione italiane.
Attraverso il contributo della Società Adriatica di Speleologia di Trieste, è stato possibile includere in detta lista anche due opere ipogee presenti in Friuli Venezia Giulia, entrambe localizzate nella provincia di Trieste, e più precisamente l’acquedotto romano di Bagnoli e l’acquedotto Teresiano. Quest’ultimo, identificato con il numero 25, risulta oggetto di studio da parte degli speleologi da oltre venti anni e si presenta come un’estesa rete di gallerie di captazione e di cunicoli per il trasporto dell’acqua.
In occasione dell’Incontro Internazionale di Speleologia svoltosi a Castelnuovo di Garfagnana agli inizi dello scorso novembre, la Commissione Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana ha presentato un numero speciale della rivista semestrale "Opera Ipogea" dedicato specificatamente al progetto "Carta degli antichi acquedotti ipogei" e, all’interno di detta rivista è stato pubblicato, fra i contributi dedicati alle opere idrauliche principali, anche lo studio intitolato "L'acquedotto Teresiano di Trieste".
A breve sarà avviato un ulteriore ciclo di studi - che vedrà impegnati speleologi, topografi e biologi, e che si svolgerà in collaborazione con l’associazione di volontariato Il Capofonte - riguardante le gallerie superiori di alimentazione dell’acquedotto, che si aprono a quota 97 m slm.

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