venerdì 26 gennaio 2007
Per qualcuno possono rappresentare una fonte di terribili incubi, per gli speleologi sono spesso dei passaggi obbligati da superare per progredire nell’esplorazione. Sto parlando delle strettoie, quelle fessure nelle quali talvolta bisogna infilarsi, cercando poi - in qualche modo - di uscirne. In molti casi risulta fondamentale la tecnica, ovviamente accompagnata da una corporatura adeguata. Quasi sempre si dimostrano indispensabili, però, anche l’esperienza e la calma con cui si affrontano.
Se devo pensare a qualche “strettoia veramente stretta” (gioco di parole molto esplicito) mi vengono in mente alcuni punti della Grotta di Villanova, negli sviluppi retrostanti il ramo del Makita. Quelle erano sicuramente delle strettoie selettive, dove è successo di partire in venti e, alla fine, di passare soltanto in quattro. Ricordando quegli angusti passaggi ho scritto alcune righe, nelle quali si riconosceranno inevitabilmente i vari speleo che, nella loro attività, hanno dovuto confrontarsi con difficoltà di questo genere.
Dopo aver tolto di mezzo tutta l'attrezzatura che avevo appesa e levato il casco, mi infilo nella fessura stendendomi su un fianco. La prima parte è da superare rimanendo nella parte bassa della spaccatura, quasi a contatto con il fondo. Ci passo appena e, per conquistare centimetro dopo centimetro, devo sincronizzare ogni sforzo con una ritmica espirazione che mi permette di vuotare la cassa toracica e di guadagnare un’ulteriore possibilità di movimento. Lentamente, mi infilo sempre più fra le due pareti di roccia, finché un irrisorio aumento della sezione mi permette di riprendere fiato. A questo punto bisogna alzarsi, per superare la seconda metà della strettoia stando più alti. Gradualmente mi sollevo, per raggiungere la parte superiore del pertugio. Il passaggio si fa veramente stretto ed ho la precisa sensazione di essere bloccato. Provo a dare uno strattone per ritornare indietro di qualche centimetro, ma mi incuneo ancora di più.

Faccio presa con tutto il corpo sulla roccia ruvida ed inizio il penoso viaggio a ritroso. Alla fine percorro non più di venti, trenta centimetri, ma mi sembra di strisciare per un'eternità. Quando arrivo in un punto leggermente più largo, mi preparo per affrontare la parte finale della strettoia all'altezza giusta. Con le spalle mi punto fra le due pareti, faccio leva con le gambe e avanzo di cinque centimetri. E' tutto molto stretto, ma si passa. Sono stanco: è curioso come si possano consumare tante energie per progredire - alla fine - solo di qualche spanna. Finalmente la sezione si fa più comoda, nel senso che fra il mio corpo e la roccia che mi contiene vi è qualche centimetro di aria. Un ultimo sforzo e sono fuori.
Mi volto a guardare la fessura e sono felice, a volte basta poco per rallegrarsi. Poi realizzo che per uscire, dopo il lavoro che dobbiamo fare, sarà necessario ripassare dalla stessa strettoia, solo più stanchi, bagnati ed infreddoliti… Ci penserò più tardi. Ora preoccupiamoci solamente delle lunghe gallerie che occhieggiano invitanti dall'altra parte della sala.
La strettoia, per il momento, può aspettare …
L'immagine ritrae Marino Quaiat (Boss) all'interno di una strettoia verticale che si stava cercando di allargare (Foto Guglia).
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