martedì 27 marzo 2007

A completamento di quanto scritto relativamente alla percezione delle grotte, ovvero a cosa si può sentire attraverso i cinque sensi nell’ambiente sotterraneo naturale, ho ritenuto opportuno concludere con un passaggio aggiuntivo, rivolto specificatamente alle cavità artificiali.
Quello che state leggendo è un blog che teoricamente ha come argomento principale proprio le opere sotterranee create dall’uomo e quindi non dovrebbe mancare un doveroso accenno a questi ambienti anche nella trattazione dell’argomento in questione.
Se penso alle cavità artificiali, non mi vengono in mente particolari sensazioni percettive dirette, se non quelle legate all’olfatto.
Come all’ingresso delle grotte è spesso possibile percepire un particolare aroma di muschio e di terra umida, anche i sotterranei scavati dall’uomo sono contraddistinti, in molti casi, da un particolare odore. Le opere sotterranee artificiali molto spesso si sviluppano in città e sono - di norma - ambienti inutilizzati ed abbandonati. Quando si apre, magari con qualche difficoltà, un vecchio portone quasi sigillato dalla polvere e dalle ragnatele, la prima zaffata d’aria che vi raggiungerà non potrà lasciarvi indifferenti. Forse a qualcuno potrà sembrare un odore quasi sgradevole che sa di muffa e di chiuso, ma io vi invito a ripensare al significato di quel soffio leggero che parla di cose vecchie e di tempi andati. Quando entrate per la prima volta in un sotterraneo, l’aria ferma che vi circonda potrebbe raccontarvi di eventi lontani, di uomini e donne che non esistono più da secoli, che hanno lavorato, sofferto e vissuto in quelle camere. Potreste sentire il fluire possente delle energie che sono state impiegate per la realizzazione di quelle stanze, ma anche quello più sottile legato al lavoro quotidiano di chi, proprio in quegli ambienti, prestava la sua opera.
L’odore, quindi, che sentirete è quello della storia, dei secoli che passano, dello scorrere del tempo che, assieme alla polvere, si è depositato anch’esso sulle pietre delle pareti.
Ovviamente, bisogna precisare che non mi riferisco all’invadente e spiacevole puzza che si può riscontrare nel caso di infiltrazioni organiche (vedi spandimenti di fogna): pur essendo un caso patologico, riesco ancora a riconoscere qualcosa di sgradevole nonostante la mia malsana e smodata passione per il mondo sotterraneo. Mi riferisco, invece, al particolare ed intrigante odore che aleggia nelle segrete dei castelli, in alcune cisterne oramai asciutte ed inutilizzate da tempo, nei tanti vani costruiti ed ancora presenti all’interno dei centri storici, nei passaggi che - seppur chiusi e abbandonati da anni - trasudano, nonostante tutto, storie e sensazioni legate alle vicende del passato. Datemi pure del matto, ma io la penso così.

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posted by Paolo at 23:00 | 0 comments

Ecco qualche altra riga scritta a ruota libera sull’esperienza dell’essere speleologo. Alcune considerazioni che, nella loro semplice evidenza, saranno ben capite da chi ha frequentato il mondo delle grotte. Forse dal testo traspare un po’ di retorica e qualche esagerazione, ma sicuramente vi si può trovare un certo fondo di verità.

Vertigine

E’ il momento decisivo, quello in cui devi staccarti e volare …
Sei sceso sfiorando la parete, sfruttando le sue crepe per puntare i piedi e darti un certo equilibrio. Sei sceso guardando di faccia la roccia e lasciandoti alle spalle il grande vuoto: non quello oscuro e discreto delle verticali interne, ma il vuoto luminoso ed avvolgente dell’ampio pozzo a cielo aperto.
La parete lungo la quale ti sei calato, anche se la toccavi appena, ti dava la sensazione di un contatto, di una presenza alla quale - se non con le mani, almeno con lo spirito - potevi in qualche modo aggrapparti. Ora, però, quella parete si è allontanata decisamente. Sei fermo al frazionamento, già perso in quello spazio dove la pietra fa un passo indietro e ti lascia da solo, appeso nell’aria ferma che ti circonda. Non si tratta di vertigine vera e propria (altrimenti non saresti li), ma di una forza antica, impressa nei tuoi geni, che ti dice che non è intelligente lasciare un punto saldo per affidarsi alla sola corda, rimanendo unito al calcare solamente attraverso un filo troppo sottile ed inquietante.
Passano gli anni, aumenta l’esperienza, ma ogni volta, quando devi staccarti, un secondo di panico ti assale. Poi tutto passa, scendi veloce e magari fai anche la sceneggiata del grande esploratore. Ma quel secondo di paura c’è sempre, inevitabile, quell’attimo di timore nel quale devi sganciarti ed affidarti alla tecnologia ed ai materiali, quell’istante dove la voce interna dell’autoconservazione grida la sua accorata ed inutile protesta …
Qualcuno ha scritto in una canzone "La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare …". Belle parole, ma provi anche lui a mettere il culo su un bel salto da 60 m illuminato dal sole. Provi anche lui ad aprire il moschettone ed appendersi al discensore mentre le pareti si allontanano e ti trovi solo, sospeso nel nulla con un fondo che ti aspetta lontano. La vertigine, in quel momento, assumerà tutto il suo profondo significato. Poi, come ho detto, ogni cosa sarà superata e raggiungerai rapidamente le rocce sottostanti. Tutto per il meglio anche questa volta, ma con la precisa sensazione che - alla prossima occasione - ogni cosa ricomincerà da capo.

(Foto Guglia)

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posted by Paolo at 22:37 | 0 comments
mercoledì 21 marzo 2007

Non è facile tracciare un percorso storico preciso riguardante la Società Adriatica di Speleologia perché, al di là delle semplici date, è necessario definire nei suoi vari aspetti un cammino che può portarci molto lontano.
L’attuale Adriatica, infatti, vede la sua costituzione ufficiale nell’anno 1980, ma non si è trattato di un gruppo nato dall’aggregazione di alcuni appassionati che, per la prima volta, si affacciavano alla realtà speleologica triestina. Non si è trattato neppure di membri che, fuoriusciti da altre associazioni, sono confluiti in una nuova. La Società Adriatica di Speleologia, con la sua nascita, è venuta di fatto a "sovrapporsi" alla Sezione Geo-speleologica della Società Adriatica di Scienze: stessa sede, stessa biblioteca, stesso materiale speleologico, i soci del primo gruppo che diventano automaticamente soci di quello neocostituito. La creazione dell’Adriatica di Speleologia è quindi spiegabile come un momento di evoluzione, come una tappa di un lungo percorso, come un evento che, mantenendo progetti e tradizioni, cambia il nome ma non lo spirito del gruppo.
Non è stato un passo facile, ma è risultato necessario per garantire, nel tempo, la sopravvivenza stessa della Società. In un’epoca dove l’aspetto economico diventa fondamentale per garantire un’attività di un certo livello qualitativo, è risultato indispensabile assumere una veste legale diversa, più agile e funzionale, che permettesse la gestione diretta dei pochi finanziamenti che la legge contempla.
Lo stesso fatto che oggi, dopo quasi trent’anni, siamo ancora qui a parlare di speleologia, dimostra che la scelta fatta, per quanto difficile, è stata quella giusta.
La Sezione Geo-speleologica della Società Adriatica di Scienze, dalla quale deriviamo, è stata istituita nell’anno 1950, per "sviluppare una seria ricerca scientifica, senza tuttavia rinunciare alla tradizione di perizia tecnica che è vanto della speleologia triestina", come indicato dallo studioso e fondatore Walter Maucci.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che la Società Adriatica di Scienze (inizialmente Società Adriatica di Scienze Naturali, a sua volta fondata nel 1878) ha annoverato fra i suoi collaboratori dei veri e propri luminari nei singoli campi della ricerca. A tale proposito possiamo ricordare vari studiosi come Marchesetti, Tommasini, Valle e Timeus, che hanno prodotto anche importanti lavori di carattere speleologico.
Concludendo, anche se secondo l'anagrafe speleologica ufficiale l’età del gruppo è alquanto modesta, è possibile affermare che la nostra attività trae direttamente origine da tradizioni ben più mature e consolidate. Essa prende spunto dalle grandi esplorazioni degli anni ’50, nonché dai primi studi sul carsismo effettuati alla fine del XIX secolo. La nostra è quindi una società giovane e dinamica, ma con radici ben profonde. Non possiamo certamente vantare alcun diritto, ma moralmente ci sentiamo eredi di quegli studiosi che, già alla fine del 1800, hanno avviato le prime ricerche geologiche e speleologiche nel nome dell’Adriatica.
Lasciamo volentieri il record di "gruppo speleologico più vecchio del mondo" ad altri ma, facendo quattro conti, possiamo ben dire che, se parliamo di storia e tradizioni, non siamo certo fra gli ultimi arrivati.

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posted by Paolo at 18:45 | 0 comments
sabato 10 marzo 2007

E’ dal 1984 che visito e studio l’acquedotto teresiano. Penso di essere la persona che meglio conosce i suoi pozzi e le sue gallerie.
Mi ricordo che, nell’anno 1994, abbiamo iniziato una campagna di monitoraggio della qualità e delle portate dell’acqua che ancora oggi scorre all’interno delle sue gallerie.
Come succede in questi casi, siamo partiti in tanti ma, con il tempo, ci siamo trovati in pochi. Inizialmente la novità ha richiamato molti interessati: durante le uscite c’era chi misurava, chi cronometrava, chi fotografava, chi scriveva …
Con il tempo, siamo rimasti solo in due, io ed il sempre presente Armando Halupca. Lui restava all’esterno, a guardia del tombino aperto, io scendevo nella galleria e raccoglievo i dati. Nelle prime uscite mi preparavo di tutto punto: stivali, tuta, casco, illuminazione, strumenti, ecc. Poi, con il passare dei mesi, la mia attrezzatura è via via diminuita, fino a ridursi ad un paio di stivali in gomma ed una lampadina elettrica fra i denti. Non è certo una cosa di cui vantarsi, ma quelle misurazioni erano state relegate a semplici uscite di routine, da risolversi nel minor tempo possibile. Tutto andò bene finché, nel mese di marzo, le misurazioni furono fatte in occasione di un periodo di eccezionale piovosità. Appena sceso nella galleria mi accorsi subito che il corso d’acqua era decisamente aumentato, occupando una buona parte del passaggio. Decisi di procedere comunque, camminando sopra una tubatura posizionato a lato del cunicolo, guadagnando così una sessantina di centimetri utili. Il viaggio di andata non destò particolari problemi, in quanto mi muovevo con attenzione, e riuscii perfino a non riempirmi d’acqua gli stivali (i mitici trombini). Durante il ritorno, invece, le cose si complicarono. Dopo un breve tratto, la torcia elettrica decise di spegnersi. Nonostante colpi, strofinamenti ed imprecazioni, la lampadina mandava solamente qualche tenue lampo di fioca luce nell'oscurità. Devo precisare che non si è mai trattato di una situazione di pericolo, in quanto conoscevo perfettamente la strada e non vi erano insidie durante il percorso. Solamente il livello d’acqua poteva dare qualche fastidio e, al massimo, il tutto si sarebbe risolto con un bel bagno: ed è esattamente quello che accadde. Procedendo a tastoni camminando sopra la tubatura, non ci volle molto perché io inciampassi su un muretto di sostegno e che, nonostante ogni sforzo per evitarlo, finissi in acqua. Come ho già detto, nessun pericolo, ma un penoso viaggio di ritorno, guidato dai rari sprazzi di luce ed immerso fino alla cintola nell’acqua fredda.
Uscito all’esterno, feci finta di niente, in quanto non avevo nemmeno qualcosa con cui cambiarmi. Probabilmente Armando non si è nemmeno accorto del mio bagno. Da allora, almeno per quanto riguarda l’illuminazione, ho imparato la lezione e non sottovaluto nemmeno una facile uscita nelle gallerie dell’acquedotto. Sulla mia testa c’è sempre il casco, con una doppia fonte di luce indipendente. Meglio prevenire che curare …
(Foto Guglia)

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domenica 4 marzo 2007


Continuiamo a parlare di percezioni in grotta, affrontando, questa volta, l’aspetto prettamente tattile. Rileggendo le righe che ho scritto, mi sono accorto di aver raccontato del potere quasi terapeutico che si può sprigionare nel prendere in mano un piccolo sasso. Ripensandoci, avevo già parlato di questo aspetto in un altro racconto scritto nel 2005. Si vede che questo è un tema al quale sono particolarmente affezionato.

Con materialità si intende la "qualità di ciò che è percepibile con i sensi". In particolare, voglio parlare di come una grotta possa essere sentita con il tatto, di come l’essere all’interno della roccia comporti inevitabilmente la presenza di una superficie complessa che divida il pieno dal vuoto. Tale superficie, seppur modificata ed integrata dai sedimenti e dalle concrezioni, può essere percepita anche nella sua materialità. L’andare in grotta comporta una serie combinata di sensazioni (suoni, odori, sapori e visioni), ma nulla risulta più diretto ed immediato del toccare la grotta. Ovviamente non si può tastare la cavità nel suo complesso (troppo vasto ed articolato), ma si può accedere al particolare. Ogni speleologo penso, prima o poi, si è fermato un attimo a sfiorare con le dita una piccola concrezione, un cristallo di calcite, una piccola vaschetta ricolma di pisoliti. Questo ti fa sentire più vicino al grande mistero della creazione dei mari, delle terre e dei suoi vuoti. In questo caso, entriamo nel campo dell’estetica naturale del dettaglio, della bellezza che può essere trovata nel particolare inteso come parte infinitesima di un più ampio fenomeno geologico. Qualche volta penso che, nella nostra epoca fatta di velocità e vacuità, possa far bene sedersi un momento per terra e prendere in mano un semplice sasso che, pur di ridotte dimensioni, ti faccia sentire giustamente piccolo in confronto a quello che ti sta attorno. Un semplice sasso che possa sbatterti in faccia l’inutilità dell’affannarsi a perseguire obiettivi che, in fin dei conti, sono ben poca cosa rispetto alle montagne, ai mari, ai fiumi e - perché no - alle grotte che si sprofondano da millenni e millenni nel buio del sottosuolo…
(Foto Guglia)

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sabato 3 marzo 2007

Qualche volta mi sento romantico. Sarà forse per il mio carattere o per la mia assidua frequentazione del mondo naturale legata alla passione speleologica, ma ci sono delle cose che ancora mi fanno commuovere. Cose piccole che normalmente si trascurano, come un fiore colorato o un minuscolo insetto dalla corazza luccicante. Oppure cose grandi, come sono grandi certi panorami mozzafiato delle nostre montagne.

Vorrei raccontarvi di un piccolo fatto successo molti anni fa, che emerge per la sua semplicità fra i tanti altri avvenimenti che invece - chissà perché - ho dimenticato. Eravamo in Canin e si esplorava l’abisso denominato fantasiosamente “Pac-Man”. Siamo entrati di sabato, nel tardo pomeriggio, e per rilevare i meandri prima della grande caverna finale abbiamo impiegato varie ore. Poi la risalita, le strettoie vicino l’ingresso e finalmente fuori. Saranno state le 4 del mattino e la notte stava cedendo lentamente il passo alle prime luci del crepuscolo. C’erano due possibilità: o ci si portava velocemente al rifugio, per cercare di dormire e recuperare subito le ore perse, oppure si rimaneva a vedere il sorgere del sole. Nonostante il mancato sonno mi stesse letteralmente massacrando (è uno dei miei piccoli difetti, per il quale mi sono trovato a dormire in piedi, con il casco appoggiato alla parete, in varie grotte italiane) io ho comunque deciso per quest’ultima opzione. Trovato un bel roccione dominante tutta la valle, ci siamo seduti con lo sguardo rivolto ad est, in attesa dell’alba. Dopo qualche indecisione, una linea di luce orizzontale, intensa e di color arancione, si è stagliato nitida sullo sfondo ancora scuro, proprio alle spalle del Mangart. Questa linea si è poi via via dilatata, creando alcuni raggi luminosi che si sono espansi in tutte le direzioni. A questo punto, lentamente, è spuntato il sole. Inizialmente solo un punto più luminoso fra due cime, poi fonte sempre più intensa che alzandosi ha irradiato tutte le montagne circostanti. Infine, un chiarore fulgido che ha definitivamente illuminato il limpido giorno che stava iniziando.
Sono cose normali, ogni giorno nasce il sole, ma in città non c’è più tempo per questi dettagli. Anche volendo, molto spesso il panorama è limitato dai palazzi e l’atmosfera, pesante di gas di scarico, annebbia tutto quanto.
Quell’alba in montagna, dopo la fatica della grotta, sapeva di pulito, di natura, di forza …
Non è certamente una cosa eccezionale: chiunque frequenti le montagne ha avuto l’occasione di vedere spettacoli di questo genere. Ma fra i tanti sorgere del sole ai quali ho assistito, questo è un punto fisso nella mia memoria. Sarà stato perché ero stanco e forse il sonno arretrato mi ha giocato un brutto scherzo, ma in quel momento mi è sembrata la più bella, straordinaria, speciale alba della mia vita. Poi, si è trattato solamente di strisciare verso il rifugio, infilarsi ancora sporchi di fango in un sacco a pelo e cercare di recuperare le forze, possibilmente in tempo per la discesa ed il mesto ritorno verso Trieste.
(Foto Guglia)

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posted by Paolo at 16:52 | 0 comments

Ci sono dei libri che segnano in maniere indelebile la crescita di un ragazzo. Sono testi che, probabilmente, vengono a dire qualcosa proprio nel momento in cui l’adolescente ne ha bisogno. In un altro periodo della vita non ci sarebbe lo stesso risultato, ma se l’occasione è quella giusta, l’effetto può essere, nel bene o nel male, esplosivo.

Per quanto riguarda la mia gioventù, ci sono alcuni libri che considero fondamentali. Mi vengono in mente, fra i tanti, Siddharta di Erman Hesse, oppure I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac.
Anche in relazione alla speleologia, c’è un particolare testo che ha rappresentato per me qualcosa di speciale. Si tratta del libro Una frontiera da immaginare di Andrea Gobetti. Questo volume del 1976, corredato da belle fotografie, racconta le molteplici esperienze dell’autore, forte esploratore del Gruppo Speleologico Piemontese, fatte in tante grotte ed in montagna, assieme ad una allegra compagnia di amici, pazzi e colorati.
Al momento della pubblicazione, Andrea aveva qualche anno più di me e penso che ogni giovane speleo di quel periodo si sia inevitabilmente riconosciuto nelle sue avventure, nella sua evoluzione interiore che lo ha portato alla ricerca delle prestazioni più estreme quasi come contrapposizione alla vita piatta della città. Da quelle pagine traspiravano voglia di libertà, originalità, fantasia ed un concetto di amicizia ben saldo e radicato. Anche la sequenza degli avvenimenti vissuti dall’autore, che è passato dalle grotte buie ed umide alle assolate pareti di calcare da scalare, ha avuto - almeno per quanto mi riguarda - una precisa somiglianza con le mie vicende personali. Anch’io, con le mie peduline rosse da arrampicata, ho cominciato a salire percorsi via via sempre più difficili, in compagnia di una banda di scalmanati, che però erano dei veri amici.
Andrea Gobetti saliva vie nel Verdon o nelle Calanques. Io arrampicavo in Val Rosandra e sulle falesie di Duino. Lui frequentava nomi illustri nel panorama dei grandi rocciatori di allora, io mi alternavo in cordata con Paolo Tamaro (Tam) e Giancarlo Bertoldo (Gianca), e solo in inseguito ho provato a legarmi alla corda di arrampicatori più forti di me, come ad esempio l’amico Aldo Fedel. Si trattava, ovviamente, di situazioni e difficoltà tecniche ben diverse, ma in quegli anni ho avuto l’impressione che le sensazioni da me provate e quelle così ben descritte nelle pagine della pubblicazione, siano state comunque le stesse.
Nel libro, ricordo particolarmente il capitolo intitolato “Ricerca di Gianpiero Motti”, che racconta l’angosciosa ricerca di un amico disperso in montagna, con un lieto finale conclusosi in una sbornia colossale. Devo confessare che, per alcuni passaggi di questo capitolo, allora mi sono quasi commosso…
Io non ho conosciuto personalmente Andrea Gobetti e devo dire che qualcuno che invece ha avuto l’occasione di frequentarlo, ha commentato dicendo che alla fine non era un grande esploratore, che c’era in lui molta finzione e che si era cucito addosso un personaggio completamente costruito. Io ho avuto la possibilità di vederlo una sola volta e mi ricordo che, alla fine, mi è sembrato brutto, strano e ben diverso da come me l’ero immaginato. Ma questo non ha molta importanza. Devo dire che quel libro ha avuto il merito di raccontare delle storie che erano esattamente quelle che io avrei voluto scrivere, di presentare delle prospettive di libertà che erano proprio quelle che io stavo cercando, narrando il tutto con un linguaggio giovane e diretto che era lo stesso che io usavo ogni giorno.
Bisogna considerare che allora ero un adolescente e che, in tale momento della crescita, può risultare utile avere qualche riferimento da seguire. Non voglio dire che Andrea Gobetti sia stato per me un esempio di vita (ovviamente ce ne sono stati di migliori …), ma penso che quel libro sia servito ad ampliare i miei orizzonti di ragazzino, a farmi capire che, nelle grotte come sulle pareti da arrampicare, potevo ritrovare stimoli e situazioni nuove, in un contesto di libertà e fantasia che allora stavo ancora cercando e che proprio nell’ambiente speleo avrei definitivamente trovato.
Voglio tranquillizzare tutti precisando che poi, con il tempo, di libri ne ho letti tanti e ognuno di questi, indistintamente, ha contribuito a farmi diventare quello che sono. Quella frontiera da immaginare, però, la tengo cara in un angolino del mio io profondo, come un momento piccolo ma significativo del personale percorso di esperienza e di crescita che ho affrontato in gioventù.

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posted by Paolo at 16:22 | 0 comments