lunedì 29 ottobre 2007

Devo dire che sono sempre stato, in alcune cose, un perfezionista. Ci sono campi nei quali chiunque può cimentarsi a proprio piacimento, senza pretendere particolari risultati. Ci sono altri settori che, invece, necessitano un minimo di riuscita. In questo caso specifico, mi riferisco alla fotografia in grotta: attività che deve produrre qualche immagine degna d’attenzione o che è meglio abbandonare nel caso di risultati deludenti. Non tutti sono fotografi ma, se decidi di esserlo, il tuo prodotto deve essere almeno sufficiente, altrimenti cambia hobby.

C’è stato un periodo nel quale non andavo mai in grotta senza la mia fidata reflex Nikon e, con il tempo, ho capito anche come ottenere diapositive più che soddisfacenti. L’esperienza insegna e dopo decine e decine di scatti, ti viene spontaneo trovare l’esposizione, l’inquadratura e la luce ideale. Poi il gioco ti prende la mano e cominci a muoverti con almeno tre diverse fonti di luce e relativi speleo/assistenti addetti alle manovre. Come ho già detto, penso di essere arrivato ad un livello più che buono, con alcune diapositive che considero quasi ottime.
Passati gli anni, però, è arrivata la rivoluzione della fotografia digitale. Dopo un periodo di inattività, dotato di una nuova macchina priva di pellicola ma prodiga di pixel, sono ritornato in grotta per fare qualche bel scatto. Il risultato è stato, però, più che deludente. Ho scoperto in prima persona che tutta la mia esperienza accumulata non valeva più nulla e che dovevo ricominciare praticamente da capo.
Non mi raccapezzavo sul fatto che scattando 30 foto, 25 di queste fossero da buttare nel cestino (in questo caso quello di Windows). Problemi di esposizione, problemi di flash, problemi di sensibilità e relativi disturbi, nuove difficoltà da comprendere, sulle quali sperimentare e per le quali trovare un rimedio.
Solo oggi, alla terza macchina fotografica digitale (nuovamente una reflex Nikon) e dopo aver adeguato le tecniche ed i materiali, posso dire di aver prodotto qualche risultato discreto. La fotografia digitale dovrebbe seguire le stesse regole della fotografia tradizionale su pellicola, ma in realtà si tratta di qualcosa di completamente diverso.
I termini usati sono gli stessi (tempi, diaframmi, sensibilità, latitudine di posa, profondità di campo, …) ma agli effetti pratici tutte le funzioni devono essere riscoperte ed analizzate di nuovo. Spero solo di raggiungere alla fine anche nel digitale i risultati un tempo ottenuti con le macchine tradizionali.
A completamento di questo post allego un’immagine che risale ai primi anni ottanta, scattata nella grotta denominata “delle torri di San Pelagio” (n. 4205 VG), che riassume perfettamente lo stile fotografico di quel periodo: modello in posa e vari lampi di luce dotati di filtri colorati. Oggi sarebbe improponibile, in quanto si da la precedenza agli scatti nitidi che mettono in risalto le reali forme ed i veri colori delle concrezioni e del mondo ipogeo.
Lo scatto, che ritrae l’amico Aldo Fedel, mi riporta però ad altri momenti, ad altre attrezzature, ad altri modi di andare in grotta ed alle relativa nostalgia per quei tempi andati (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 12:21 | 0 comments
giovedì 25 ottobre 2007

Con il breve testo che segue, chiudo per il momento la serie di racconti fantastici riguardanti gli strani esseri che si possono trovare nelle grotte. Ho già scritto, infatti, di diafane principesse e di mostri assetati di sangue; questa volta - pur restando sempre nel paranormale - ci immergeremo invece in atmosfere più spirituali e new-age…


Lui

Da sempre, io sono una persona che crede solamente a quello che vede. Fantasie, convinzioni strane, esoterismi vari li lascio volentieri a chi ha tanto tempo da dedicare anche alle cose inutili e dispersive. Io sono un tecnico, una persona concreta, uno che deve toccare le cose. Eppure mi è successo qualcosa di veramente inaspettato. Scrivo oggi queste poche righe, perché quello che è accaduto solo ieri l’ho ancora perfettamente stampato nella mente … e non potrebbe essere altrimenti.

Ero sceso in grotta e procedevo da solo. Gli altri compagni di esplorazione erano più avanti ed avanzavano velocemente armando la cavità. Io seguivo con più calma, ma senza preoccuparmi: i tanti anni di speleologia mi permettono di rimanere a mio agio nel sottosuolo, anche se resto senza compagnia. Il pozzo era di profondità media, avrà avuto una trentina di metri. Dopo aver disceso la prima campata, fermo in corrispondenza di un chiodo, ero indaffarato a portare il discensore sul secondo tratto della corda. Ed è a questo punto che è successo l’incredibile. Ammetto che non avevo tanta luce, che ero un po’ affannato e che forse in questo periodo sono un po’ esaurito, ma ho sentito una specie di suono alle mie spalle. La prima impressione è stata quella di uno spostamento d’aria, di un leggero battito di ali. Mi è sembrato strano perché i pipistrelli, unici abitatori volanti delle grotte, producono un rumore particolare, veloce e facilmente identificabile e, in quel caso, si trattava di qualcosa di completamente diverso. Leggermente allarmato, mi sono girato e mi sono trovato di fronte a Lui. Immaginate la mia espressione: avevo davanti, a pochi metri di distanza, una persona che mi fissava. Attenzione, in grotta uno si aspetta di trovare qualcuno vestito con la tuta, con la luce sul casco ed appeso ad una corda. Mi stava di fronte, invece, un essere (usa questo termine, anche se non so se sia quello giusto) vestito con una specie di tunica chiara e lunghi capelli biondi che ricadevano sulle spalle. Ma come riusciva quel coso a stare sospeso in mezzo al pozzo, senza l’ausilio di alcuna attrezzatura? La verità mi si è parata davanti con la violenza di uno schiaffo: con un leggero soffio, alle spalle di quella figura si sono allargate due ampie ali piumate, di un pallido color ambrato.
Quest’ultima informazione mi ha dato il colpo finale. Ho iniziato a tremare, ho sentito un brivido gelido alle spalle, ho chiuso gli occhi per rifugiarmi nell’oscurità, ma riaprendoli ho scoperto con sgomento che quel ragazzo biondo e bello era sempre lì. Ci sono delle cose che sono difficili da accettare. L’immagine che avevo davanti agli occhi doveva essere necessariamente un’allucinazione, il frutto della mia fantasia malata. Ma ogni qualvolta volgevo lo sguardo verso il centro del pozzo, quella fantastica figura appariva nella sua eccezionalità, nella sua evidente impossibilità di essere vera.
Lui continuava a guardarmi sereno. Cosa voleva da me, perché proprio io, cosa significava tutto ciò?
Lentamente l’essere, con un colpo d’ali, si è avvicinato ulteriormente. Io sono rimasto bloccato, fermo, in attesa di ciò che poteva succedere. Quando oramai era ad un metro da me, sempre sorridendo, il giovane ha alzato lentamente la mano, indicando la mia attrezzatura di discesa. Poi, con un rapido movimento, si è girato ed è scomparso. Non so dire se si è allontanato velocemente o se semplicemente si è dissolto: un attimo prima c’era, un secondo dopo era sparito.
Io sono rimasto solo, quasi sotto shock. Mi era successa una cosa fantastica, incredibile, unica. Ma quali prove avevo che tutto ciò fosse veramente accaduto? E’ stato solo un sogno?
Sono ritornato lentamente alla realtà e mi sono quindi concentrato per concludere la discesa del pozzo. E’ stato allora che, guardando la mia attrezzatura, proprio quella indicata dall’essere alato, ho notato che il discensore era appeso ad un moschettone rimasto inavvertitamente aperto che, se sollecitato, si sarebbe sicuramente sganciato. Se mi fossi appeso alla corda, la caduta sarebbe stata inevitabile ...

Nonostante sia passata una giornata dall’episodio che vi ho narrato, penso ancora continuamente a quel fatto eccezionale. Sono salvo per miracolo ed uso questo termine a proposito. Qualcuno mi ha avvertito del grave pericolo e, per questo motivo, oggi posso essere qui a raccontarlo. Quando ho spiegato tutto ad i miei compagni, ho ricevuto in risposta risate e sberleffi: c’era chi mi consigliava di limitarmi nell’alcol, chi affermava che - essendo oramai troppo vecchio - dovevo stare attento alle allucinazioni da fatica, chi mi redarguiva ridendo sul pericolo legato all’uso sconsiderato delle droghe pesanti … nessuno mi voleva credere.
Io, però, ci ho pensato a lungo ed ho tratto le mie conclusioni: rimango ancora, nonostante tutto, una persona razionale e concreta, ma mi fa un certo piacere immaginare che alle mie spalle, invisibile e discreto, ci sia un bel ragazzo - biondo ed alato - che in qualche modo vigila su di me e sulle mie maldestre azioni. Ne abbiamo proprio bisogno, nei strani tempi in cui viviamo …

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posted by Paolo at 18:24 | 0 comments
lunedì 15 ottobre 2007

Nel post intitolato Torri di Slivia ho parlato di una vecchia vicenda su cui avevo voglia di sfogarmi, come si trattasse del famoso sassolino che da troppo tempo mi tenevo nella scarpa e del quale volevo liberarmi.
Ma esiste anche un’altra circostanza sulla quale ho taciuto per anni, della quale non ho mai trovato - per ora - il momento opportuno per parlarne con i diretti interessati. Non so se un blog è l’occasione giusta per dare delle giustificazioni su avvenimenti passati da tanto tempo, ma cercherò di spiegare come si sono svolte le cose. Per prima cosa devo precisare che non intendo fare il nome della grotta in questione, ne quello dei personaggi coinvolti, ma forse chi conosce questi vecchi fatti riuscirà a collocare nella giusta posizione queste mie parole. Come ho detto, risalgo a tanti anni fa e mi riferisco ad una bella area carsica relativamente vicina a Trieste. Esisteva in zona un piccolo gruppo speleologico, con cui avevamo anche un certo rapporto di amicizia e con il quale si era a lungo parlato di attività e di collaborazioni. Questa associazione aveva trovato una bella risorgiva, posizionata in un punto molto particolare e veramente interessante per tutta una serie di sue caratteristiche morfologiche ed idrologiche. Varie sono state le discussioni su questa cavità ma, nonostante le nostre richieste, non siamo mai stati accompagnati in una sua visita e non ci è mai stata confidata nemmeno la sua esatta ubicazione. Il rilievo di questa grotta, inoltre, non mai è stato consegnato al Catasto. Il tempo, però, corre inesorabilmente e le situazioni mutano velocemente. Ad un certo punto, di quel gruppo si era persa progressivamente ogni traccia e non riuscivamo più a trovare gli amici di un tempo: chi si era sposato, chi era partito, che aveva abbracciato altri interessi. Un giorno, inaspettatamente e per motivazioni del tutto estranee alla speleologia, abbiamo rintracciato l’ingresso di una risorgiva, posto in una posizione alquanto particolare. E’ bastato fare qualche considerazione, qualche confronto con quanto avevamo sentito dire, ed è emerso subito che quella grotta doveva essere proprio quella già trovata dal gruppo locale e che tante volte avevamo chiesto di visitare. A questo punto abbiamo ragionato su cosa era meglio fare ed abbiamo preferito far finta di niente: non è con una grotta in più o una grotta in meno che si misura l’attività di un gruppo speleologico … Passano i mesi e scopriamo, però, che altri speleologi triestini, di un altro gruppo, stanno setacciando il territorio alla ricerca proprio di quella cavità. Ai resoconti che ci venivano fatti di attente battute di zona e di calate con le corde lungo varie pareti, noi rispondiamo con indifferenza, non facendo trapelare che invece sapevamo esattamente la posizione dell’ingresso. Ma gli altri speleologi erano ben accaniti nella ricerca e, uscita dopo uscita, hanno iniziato ad avvicinarsi sempre più alla reale posizione della cavità ricercata. A questo punto abbiamo fatto un ragionamento: chiedendo in paese ci hanno confermato nuovamente che il gruppo locale non esisteva praticamente più e gli speleologi triestini, continuando nelle ricerche, avrebbero localizzato ben presto la grotta, procedendo immediatamente al suo rilievo senza alcuna remora di sorta. Noi conoscevamo l’ingresso della cavità oramai da quasi quattro anni e non avevamo ritenuto opportuno procedere al suo rilievo, ma a questo punto il tutto aveva un senso? La grotta sarebbe stata comunque documentata e perché allora non farlo direttamente noi? Abbiamo così organizzato un’uscita specifica per procedere al rilevamento di quella bella risorgiva che, finalmente, abbiamo potuto visitare. Da allora sono passati molti anni e la cosa è scesa nel dimenticatoio. Un po’ di tempo fa ho sentito, però, che proprio i triestini che hanno cercato per lungo tempo la grotta per rilevarla a proprio nome, si sono lamentati con il gruppo locale - nel frattempo risorto dalle sue ceneri ed oggi un’importante realtà nel panorama regionale - condannando noi per quella che consideravano una vera e propria piratata (azione da pirata che “ruba” una grotta trovata da altri). Non ho mai fatto sentire la mia voce su questa vicenda, ma forse un giorno (spero molto presto) avrò l’occasione di porgere le mie scuse al gruppo speleologico locale, al quale spiegherò con calma tutta la storia e cercherò di far capire come, al momento degli avvenimenti, fossimo stati veramente convinti che quell'associazione non esistesse praticamente più. Forse avrò anche l’occasione di dire agli speleologi triestini che allora hanno cercato disperatamente la grotta, che se non fosse stato per la loro determinazione, da parte nostra non avremmo nemmeno messo piede nella cavità in questione. Dirò anche che forse prima di usare termini come etica speleologica e parole come piratata, qualcuno dovrebbe fare un approfondito esame di coscienza. Non mi dilungherò di più, in quanto penso di aver annoiato a sufficienza chi non è riuscito a riconoscere i personaggi e la scena dove si è svolta questa vecchia commedia. Per chi invece è in grado di capire, confermo che questo è stato l’esatto svolgersi dei fatti ed auspico ci sia presto la possibilità di parlarne serenamente, magari davanti ad un buon bicchiere di vino.

L'immagine raffigura uno scorcio della forra che passa nei pressi della grotta in questione .... (Foto Guglia).

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venerdì 12 ottobre 2007

Ho scritto recentemente (1) - (2) della mia esperienza sull’altopiano di Astraka, durante la visita alla grotta denominata Provatina. Ho parlato del lungo avvicinamento, della ricerca e della discesa nella profonda grotta, nonché delle varie e strane vicissitudini che hanno caratterizzato quell’uscita.
Rileggendo il tutto, però, mi sono accorto di non aver accennato ad una particolare circostanza occorsa durante il ritorno al paese di Papingo. Per essere autonomi per tutto il tempo necessario, avevamo vari sacchi con i materiali da campo, le tende, i sacchi a pelo ed i viveri. Ovviamente avevamo anche tutte le attrezzature per armare la grotta: corde, placchette, moschettoni, ecc. Si trattava, quindi, di un bel mucchio di tubolari in PVC, ben compressi ed abbastanza pesanti. In andata ci siamo fatti aiutare, inizialmente, da un simpatico somarello, che si è caricato sul basto vari sacchi. Poi, quando è iniziato il terreno innevato, abbiamo dovuto dividerci il carico e caricarselo in spalla. Ricordo come estremamente faticosa la salita dei vari canaloni fino alla sommità dell’altipiano, anche se devo dire che la neve primaverile era comunque ben salda e compatta. Qualche giorno dopo, completata la visita alla grotta e ricaricati i materiali in spalla, abbiamo iniziato la lenta discesa verso valle. Si trattava di ridiscendere lungo i vari pendii di neve, fino a raggiungere il sentiero che ci avrebbe portato, in non più di un’ora di cammino, al paese ed alle automobili che ci stavano aspettando. Ovviamente è stata adottata ogni soluzione per risparmiare la fatica e preservare le poche energie rimaste ed è così che è stata utilizzata la tecnica della “discesa su sacco”. Non si è trattato sicuramente di una metodologia inedita ed ho letto di altre spedizioni che, al momento della discesa, si sono sbizzarrite in soluzioni di “scivolamento frenato”. Noi, semplicemente, ci siamo seduti ognuno sul proprio sacco e, a cavallo di questo, siamo scesi velocemente verso valle. Devo dire che la qualità della neve, la pendenza dei canaloni, le caratteristiche del sacco, il peso degli speleo, hanno rappresentato un mix di condizioni ideali per una discesa rapida e costante, ma - nel contempo - sempre controllata e sicura. Con questa tecnica ci siamo risparmiate varie centinaia di metri di discesa a piedi, giungendo ben presto al sentiero sottostante.
La giornata era splendida con cielo sereno, sole luminoso ed un panorama aperto e limpido. Quella veloce discesa fra i monti del Pindo, rappresenta per me un ulteriore ricordo positivo di quell’interessante uscita svolta nel 1981 in terra di Grecia.


Non possedendo immagini della discesa, allego quindi una foto relativa alla salita verso l’altopiano innevato di Astraka (Foto Guglia).

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giovedì 4 ottobre 2007

Questa volta propongo un racconto abbastanza lungo, sempre di tema speleologico. Il finale è sicuramente triste (chissà perché scrivo sempre cose di questo genere …), ma c’è anche una leggera poesia nella vaga similitudine fra la corda speleo ed il sottile filo lungo il quale si snoda - nel bene e nel male - la nostra esperienza terrena. Alla protagonista del racconto, frutto della mia fantasia, ho dato il nome di Sara.


La lunga discesa

Sara era rimasta un po’ indietro rispetto ai compagni, ma non c’era da preoccuparsi. Aveva già percorso quella grotta e conosceva bene la sequenza dei pozzi e delle gallerie. Si ricordava che, superata l’ultima curva di quella specie di meandro, si arrivava ad un piccolo slargo che conduceva direttamente sul largo pozzo da quaranta metri. Fatti alcuni passi, infatti, Sara riconobbe la piccola sala e poté affacciarsi sull’ampio salone che si sprofondava davanti a lei.
Guardando bene nel buio dell’ambiente sottostante, le parve di scorgere le luci degli amici che la precedevano e questo la tranquillizzò ulteriormente.
Sara passò la corda nel discensore con mano decisa e, con elegante mossa, si appese al frazionamento. Puntandosi sulla parete, sganciò il moschettone, liberò la chiave che bloccava il discensore ed incominciò la discesa.
La calata si svolgeva inizialmente a contatto con la parete, per poi allontanarsi da essa di qualche metro. Nella prima parte della discesa, poté distinguere chiaramente la roccia bianca ricoperta da piccole stalattiti trasparenti, da chiare colate calcitiche e da cristalli luccicanti, e si convinse che quella era veramente una bella cavità, che accomunava morfologie particolari a punti dove le concrezioni formavano uno spettacolo di notevole bellezza.
Ad un tratto, però, un piede perse la presa e Sara si girò violentemente verso la parete: non si trattava sicuramente di un gran colpo, ma l’incidente dimostrava che bisogna stare sempre attenti quando si scende in grotta. L’unico risultato della scivolata fu che la lampada a carburo, sbattendo sulla parete, si spense. Non servirono a nulla i vari tentativi di ripristino e la calda luce della fiammella non si riaccese più. Sara azionò, allora, la luce elettrica di riserva. Saranno state le batterie parzialmente scariche, oppure la parabola della lampada non perfettamente pulita, ma il raggio della luce permise solamente una limitata visione che si spingeva a pochi metri di distanza.
Nonostante l’inconveniente, la ragazza riprese la discesa. Non riusciva a scorgere l’attacco della corda in alto, come non riusciva a vedere il fondo del pozzo: l’unica cosa che poteva percepire era la parete, appena illuminata ed ora lontana qualche metro.
Sara scese comunque spedita, cercando di raggiungere la base del salto per rimettere in funzionale la lampada a carburo. La corda scorreva regolare nelle pulegge del discensore, liberando un sottile soffio di polvere a ricordo del fango accumulato nelle tante ore di suo utilizzo nel sottosuolo. Sara guardò nuovamente verso il basso, aspettandosi di vedere comparire da un momento all’altro le rocce del fondo, ma non vide nulla.
Si trattava di un semplice salto profondo solamente quaranta metri, il tempo per discenderlo poteva essere al massimo di qualche minuto, Dove era, allora, il pavimento del salone?
Sara iniziò leggermente a preoccuparsi. C’era qualcosa che non andava, perché quel pozzo sembrava ben più profondo di quanto era in realtà? Cosa stava succedendo?
La ragazza osservò l’orologio. La discesa continuava regolarmente ed il discensore iniziò a scottare leggermente fra le mani. Guardando nuovamente, si accorse che erano passi altri due minuti. E questo non era possibile. Cosa stava succedendo in quell’atmosfera fredda appena illuminata dalla fioca luce della lampada?
Sara decise di porre maggiore attenzione allo scorrere del tempo. Mentre scendeva osservò attentamente le cifre dell’orologio digitale che, con numeri rossi e luminosi, si ricorrevano inesorabilmente. Passarono altri due minuti. Era tutta una follia. Un ultimo sguardo verso il basso senza scorgere nulla e la corda si fermò finalmente nel discensore.
Sospesa nel vuoto, senza riferimenti precisi, Sara cominciò ad avere paura. Cercò di chiamare i compagni, ma le sue grida si persero nel buio e nell’aria ferma di quell’ampio vano. Forse si trattava di uno scherzo, forse di qualche strano fenomeno naturale, ma ogni cosa sembrava in contrasto con le normali leggi della fisica. Un salto di quaranta metri si supera velocemente, volendo anche in pochi secondi, ma lei era scesa ininterrottamente per quasi dieci minuti senza raggiungere né il fondo del salone, né il termine della fune.
Appesa al discensore, Sara dondolava lentamente, mentre una strana sensazione la prendeva alla bocca dello stomaco: forse era meglio risalire. Bloccò il discensore con la chiave e prese la maniglia che aveva appesa in cintura. Fissati i bloccanti e sganciato il discensore, iniziò la salita. Calcolò che, pur procedendo con estrema calma, in una decina di minuti sarebbe giunta all’attacco della corda. Per precauzione lanciò uno sguardo all’orologio e quindi iniziò la sequenza dei movimenti. Ad ogni estensione guadagnava quasi quaranta centimetri di corda e la distanza rispetto al punto di partenza della fune diminuiva di conseguenza. Senza affrettarsi, Sara face dei passi lenti ma distesi, senza stancarsi troppo. Procedette così nella semioscurità (l’impianto a carburo continuava a non volersi accendere) finché le braccia non iniziarono ad intorpidirsi per lo sforzo. Allora si fermò e guardò in alto: la corda si perdeva nel buio senza evidenziare la presenza di alcun nodo o moschettone di attacco. Osservando, per quanto possibile, la parete, le parve di scorgere una stalattite dalla forma strana, che ricordava di aver visto molti metri più in basso. Non era possibile, era tutto così strano ed assurdo.
Guardò nuovamente l’orologio e vide che era passata quasi un’ora da quando aveva iniziato la risalita. Questa constatazione la fece sprofondare nella più cupa disperazione. Non poteva essere vero, cosa stava succedendo?
Fece ancora qualche movimento verso l’alto, poi si fermò. Sara era appesa in un punto intermedio di una corda lunga quaranta metri, tesa verticalmente. Lei era discesa, però, per un dislivello ben maggiore, per poi risalire per una distanza anch’essa superiore alla lunghezza complessiva della fune. Questo era naturalmente impossibile.
Le venne da piangere. Come poteva essersi messa in una situazione come quella? Cosa le stava accadendo?
Con una decisione improvvisa, Sara pensò che se doveva raggiungere un’estremità della fune, tanto valeva scendere, risparmiando le forze. Riprese quindi il discensore, lo posizionò sulla corda, staccò i bloccanti ed iniziò nuovamente il suo viaggio verso il fondo del pozzo.
Fu in questo momento che anche la luce elettrica iniziò a dare dei problemi. Forse le batterie stavano esaurendosi, oppure qualche contatto era troppo ossidato. La luce si ridusse ad un semplice lumicino, finché si affievolì del tutto. Questa volta, nel buio, la ragazza pianse davvero. Cercò in tutti i modi di recuperare un po’ di luce, agitò, accarezzò ed implorò la lampada a carburo di accendersi, ma la fiammella non ricomparve. Controllò le batterie dell’impianto elettrico e tutti i vari collegamenti, ma non ottenne nulla. Era bloccata su quel pozzo, sola e nella più completa oscurità.
Pensò che forse sarebbe stato meglio aspettare i compagni e cercò di mantenere la calma, ma guardando l’orologio si accorse che erano passate varie ore da quando aveva visto allontanarsi i suoi amici e lo sviluppo limitato della grotta non era tale da giustificare un simile ritardo. Era successo qualcosa di veramente eccezionale e lei (sperò in cuor suo che nulla fosse successo ai suoi amici) era come prigioniera in una dimensione bizzarra e strana, in cui il tempo e lo spazio avevano assunto un significato diverso.
Decise, comunque, di continuare la discesa. All’inizio procedette lentamente, pensando che al buio poteva sbattere su qualche spuntone di roccia, ma questo non accadde. Allora accelerò. La corda scorreva nel discensore sempre più velocemente. Oramai sentiva l’alluminio dell’attrezzo scottare fra le mani, a causa dell’attrito. Ma non rallentò per questo. Voleva porre fine a quella situazione, voleva raggiungere il fondo ad ogni costo.
Sara sorrise pensando che quello che stava scendendo era sicuramente il dislivello maggiore che lei aveva mai percorso. Pensò che forse si trattava di un vero record mondiale, che nessuno avrebbe mai eguagliato. Dal sorriso, però, passò subito alle lacrime. A questo punto, era sicura che non avrebbe più rivisto la sua famiglia, i suoi amici, il suo gatto …
La velocità aumentò ancora. Oramai, visto il tempo trascorso, era evidente che lei era discesa per molte centinaia di metri lungo una corda che ne misurava solamente quaranta ... a questo pensiero Sara imprecò ad alta voce e la sua voce risuonò alta nel silenzio della grotta.
Voleva raggiungere il fondo del pozzo, doveva raggiungere il fondo del pozzo. Le sembrò di volare, di planare in un gioco di correnti, di venti umidi e di tenebre in movimento …
Lasciò completamente libera la corda ed allontanò le mani dal discensore. Scese così quasi in caduta libera, con l’aria fredda che le soffiava in faccia. La velocità aumentò ancora, ma a lei non interessava più. Doveva uscire da quella situazione e non importava come.

Quando i compagni ritornarono indietro, era passata - in realtà - solamente mezz’ora dal momento in cui avevano lasciato Sara. Ben presto, con sgomento, la trovarono distesa fra i massi alla base del pozzo. L’inattesa disgrazia li travolse e la disperazione crollò loro addosso come un macigno. Tutti si domandarono cosa potesse essere successo. Sara era un’abile speleologa, esperta ed allenata. Cosa era accaduto in quei trenta minuti, lungo quel facile pozzo in libera, di soli quaranta metri di profondità? Nonostante le mille congetture, questa domanda non trovò mai la giusta risposta …

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posted by Paolo at 21:17 | 1 comments