martedì 30 gennaio 2007

Quando si viene a sapere che mi interesso di cavità artificiali, quasi sempre mi rivolgono tre domande, che si vede sono legate a dei temi molto sentiti a Trieste.
Le domande sono: avete trovato il tribunale dell’Inquisizione dei Gesuiti? Siete entrati nell’estesa rete di sotterranei che corre sotto Cittàvecchia? Esiste veramente una base di sommergibili nella baia di Sistiana?
Forse potranno essere posti in una sequenza diversa, ma gli argomenti affrontati saranno inevitabilmente questi. La mia risposta, quando non ho la voglia o il tempo per approfondire, è la seguente: "Non c’è niente di vero, si tratta solo di leggende!"
Ovviamente questa è una posizione semplicistica, che vuole tagliare sul nascere una discussione che, quasi sempre, non porterebbe da nessuna parte. In realtà ognuna delle tre tematiche merita una risposta seria ed articolata, ed è proprio quello che cercherò di fare in questa sede.


A
vete trovato il tribunale dell’Inquisizione dei Gesuiti? A questa prima domanda si possono dare varie risposte, a seconda di dove si vuole andare a parare. Quella più seria ed obiettiva potrebbe essere: "Siamo entrati nei sotterranei nei quali la credenza popolare vuole sia stato insediato un tribunale dell’Inquisizione", nel senso che le camere, le nicchie e le varie stanze descritte fin dalla fine dell’ottocento sono state visitate e documentate, ma tutto questo non ha nulla a che fare con l’Inquisizione. Sotto alla chiesa di Santa Maria Maggiore vi sono effettivamente dei vani, che considero anche abbastanza interessanti sotto l’aspetto costruttivo, ma potrei quasi escludere che questi possano essere stati collegati in qualche modo alla presenza di un tribunale inquisitoriale. Non c’è alcuna corrispondenza temporale (l’edificio sacro è stato completato appena nell’anno 1682) e gli stessi Gesuiti, che hanno retto la chiesa fino all’anno 1773, possono essere considerati un ordine alquanto marginale nell’azione repressiva del Sant'Uffizio.
Un ultimo appunto può essere fatto anche relativamente alla presenza di documenti. I tribunali dell’Inquisizione operavano apertamente, con l’intento di spaventare la gente e quindi di prevenire l’insorgere di comportamenti eretici contrari al rigido credo dettato dal clero e dal Papa. Ogni processo è stato quindi documentato e reso pubblico, ed i relativi atti sono stati regolarmente inviati a Roma. Non esiste, però, alcun documento che parli di un tribunale insediato a Trieste. Vi sono accenni di un tribunale a Capodistria ma, di fatto, le autorità asburgiche non hanno mai ammesso il funzionamento stabile dell'Inquisizione nei loro territori.
Sulla base di quanto sopra riportato, risulta ben difficile anche solo ipotizzare l’insediamento di un tribunale nei sotterranei della chiesa dei Gesuiti. Si tratta di vani affascinanti e misteriosi, recentemente interessati da una radicale azione di pulizia e ripristino svolta dalla SAS, ma nulla di più.
Rimane il fatto che alcune voci autorevoli, fin dagli ultimi anni del XIX secolo, hanno presunto l’attività dell’Inquisizione in questi ambienti. Tale interpretazione aveva il pregio di giustificare, all’epoca, la presenza di ossa nei sotterranei (resti di sepolture come in quasi ogni chiesa), accontentando anche i sentimenti anticlericali presenti in molti autori. La congettura ha quindi trovato terreno fertile nella fantasia degli abitanti del rione che, convinti dal continuo ripetersi della notizia sui giornali e - in seguito - perfino alla televisione, hanno dato origine ad una convinzione popolare oggi molto radicata. Il tutto, quindi, da considerarsi come frutto della fantasia e dell’interpretazione romantica di chi, molto spesso, non è nemmeno sceso in questi sotterranei. In ogni caso, l’idea del tribunale operante nei sotterranei della chiesa di Santa Maria Maggiore ha rappresentato il primo e fondamentale tassello nella nascita ed evoluzione della leggenda dei sotterranei triestina.


L'immagine si riferisce ai recenti lavori eseguiti nei sotterranei dei Gesuiti (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 19:05 | 0 comments
sabato 27 gennaio 2007

Non ricordo esattamente l’anno, ma doveva trattarsi della fine degli anni settanta del secolo scorso (fa un po’ ridere, ma bisogna dire così …).
Una domenica, dopo aver vagato per la zona di Gabrovizza con zaini pesanti e sacchi pieni di scale e corde, ci siamo fermati indecisi su che grotta visitare. Avevamo abbastanza materiale, perciò c’era chi voleva scendere nell’Abisso dei Cristalli ed altri che puntavano ad un’uscita più tranquilla alla grotta Alce-Tilde. Alla fine è prevalsa la decisione di scendere nella Fovea Maledetta, formata da un unico profondo pozzo.
Personalmente, attratto più dal bel sole che splendeva che dal fascino dell’abisso, ho deciso di rimanere fuori e di dare una mano dall’esterno.
E’ stato così predisposto l’attacco e sono state svolte le scale e le corde. Alla fine, ad uno ad uno i miei compagni si sono calati nella cavità. Così io sono rimasto solo a godermi quella giornata mite di primavera. Sono passati, però, pochi minuti e, dal fondo del pozzo, sono cominciate ad uscire voci concitate, attutite dalla distanza. Urla ed imprecazioni che indicavano chiaramente come qualcosa non fosse andata per il verso giusto. Finalmente, il primo amico è spuntato dal pozzo e, con fare confusionario, ha spiegato come si fosse staccata una grossa frana della parete, proprio in corrispondenza del percorso della scala. Molto materiale è precipitato sul fondo, dove si trovavano gli altri esploratori. Tutti si sono buttati negli anfratti delle pareti, ma uno è stato colpito violentemente da un sasso. Pensate ai momenti di paura passati durante le operazioni di recupero del ferito che, anche se scosso e malmesso, è riuscito lentamente a guadagnare la superficie. La persona colpita è stata Paolo Parenzan, simpatico personaggio e speleologo, che pur riparandosi all’interno di una nicchia è stato raggiunto in pieno volto da una pietra. Il materiale è franato da una considerevole altezza ed alcuni sassi sono rimbalzati lungo le pareti. Paolo è stato colpito da uno di questi, che l’ha ferito alla base del naso arrivando quasi in orizzontale all’interno della nicchia dove si era riparato.
Si è trattato di una forte contusione che ha causato la fuoriuscita di tanto sangue e, quando la testa dell’amico è uscita dal bordo del pozzo tutta insanguinata, ho avuto un momento di vera preoccupazione. Comunque, anche in questo caso, non ci sono stati gravi conseguenze per l’infortunato. (Foto Guglia)


Aggiornamento 21.01.2015
Dopo molti anni dalla pubblicazione di questo post (esattamente otto), ho avuto il piacere di essere contattato dall'amico Paolo Parenzan, che non sentivo da tanto tempo. Paolo è il vero protagonista della storia sopra riportata e leggendo quanto avevo scritto, mi ha fornito delle indicazioni per correggere alcune circostanze. La vicenda si è svolta esattamente il giorno 13 aprile 1975, io non sono sceso in grotta e, allora, avevo solo 16 anni, per cui mi perdonerete qualche inesatteza nel ricordare quello che è successo in quella lontana mattinata.
Ma veniamo a come sono accaduti realmente i fatti. Nella Fovea Maledetta si stava già procedendo al recupero del materiale. Per facilitare il sollevamento delle scale, Paolo si è fermato su un terrazzino a 60 m di profondità. Dal ponte naturale soprastante si è però staccato un masso (lui ricorda un pietrone di almeno mezzo metro di diametro o più...) che ha sbattuto sulla parete, si è frantumato in varie parti e una di queste lo ha colpito al volto. Da questo momento in poi i miei ricordi e gli accadimenti reali coincidono, in quanto rimane la paura di chi era all'esterno, l'ansia della risalita e l'immagine di Paolo sanguinante che emerge dall'orlo del pozzo.
E' bello che mi abbiano contattato per aggiungere ulteriori elementi alla storia. Questo vuol dire che almeno qualcuno ha letto il post e poi, con il contributo di chi c'era, è possibile ricostruire più fedelmente piccoli avvenimenti che comunque hanno fatto "la storia" di chi li a vissuti in prima persona. Sono passati molti anni e tante cose sono cambiate, ma ricordo con nostalgia quel periodo, quando eravamo giovani ed avevamo tanto entusiasmo e tanta voglia di fare.
Chissà se l'aver fatto questo aggiornamento mi porterà a riprendere la scrittura del mio blog fermo da anni?  

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posted by Paolo at 19:13 | 0 comments
venerdì 26 gennaio 2007

Per qualcuno possono rappresentare una fonte di terribili incubi, per gli speleologi sono spesso dei passaggi obbligati da superare per progredire nell’esplorazione. Sto parlando delle strettoie, quelle fessure nelle quali talvolta bisogna infilarsi, cercando poi - in qualche modo - di uscirne. In molti casi risulta fondamentale la tecnica, ovviamente accompagnata da una corporatura adeguata. Quasi sempre si dimostrano indispensabili, però, anche l’esperienza e la calma con cui si affrontano.

Se devo pensare a qualche “strettoia veramente stretta” (gioco di parole molto esplicito) mi vengono in mente alcuni punti della Grotta di Villanova, negli sviluppi retrostanti il ramo del Makita. Quelle erano sicuramente delle strettoie selettive, dove è successo di partire in venti e, alla fine, di passare soltanto in quattro. Ricordando quegli angusti passaggi ho scritto alcune righe, nelle quali si riconosceranno inevitabilmente i vari speleo che, nella loro attività, hanno dovuto confrontarsi con difficoltà di questo genere.

Dopo aver tolto di mezzo tutta l'attrezzatura che avevo appesa e levato il casco, mi infilo nella fessura stendendomi su un fianco. La prima parte è da superare rimanendo nella parte bassa della spaccatura, quasi a contatto con il fondo. Ci passo appena e, per conquistare centimetro dopo centimetro, devo sincronizzare ogni sforzo con una ritmica espirazione che mi permette di vuotare la cassa toracica e di guadagnare un’ulteriore possibilità di movimento. Lentamente, mi infilo sempre più fra le due pareti di roccia, finché un irrisorio aumento della sezione mi permette di riprendere fiato. A questo punto bisogna alzarsi, per superare la seconda metà della strettoia stando più alti. Gradualmente mi sollevo, per raggiungere la parte superiore del pertugio. Il passaggio si fa veramente stretto ed ho la precisa sensazione di essere bloccato. Provo a dare uno strattone per ritornare indietro di qualche centimetro, ma mi incuneo ancora di più.
Non rimane che avanzare. Cerco di rimanere all'altezza giusta dove, forse, è disponibile qualche millimetro in più per passare. Mi accorgo, però, che una cinghia dell’imbracatura si è incastrata su un piccolo spuntone della parete ed è questo che mi ha arrestato. Cerco di sistemarmi meglio con il corpo, ma non è possibile. Provo allora ad alzarmi, ma non succede nulla. Non rimane che tirare, che forzare per uscire dalla situazione di stallo. Un primo strappo violento, un secondo, ma l’unica cosa che ottengo è di ruotare con il busto verso il basso, verso la parte più stretta della fessura. Ad ogni movimento, invece di liberarmi, mi incastro sempre più profondamente. Il respiro si accelera e sento un brivido di freddo alle spalle. Chiudo gli occhi e cerco di rallentare il battito del cuore che si è fatto veloce ed assordante nelle orecchie. Per prima cosa bisogna vuotare la mente, pensare di essere da un’altra parte, credere che tutto possa essere risolto con la calma e la concentrazione. Poi, lentamente, bisogna ritornare nella fessura, fra le due strette pareti di pietra. Bisogna ricostruire il percorso appena seguito, idealizzare come sei arrivato fino a li e quindi provare a ritornare indietro, millimetro dopo millimetro, per raggiungere una posizione più comoda.
Faccio presa con tutto il corpo sulla roccia ruvida ed inizio il penoso viaggio a ritroso. Alla fine percorro non più di venti, trenta centimetri, ma mi sembra di strisciare per un'eternità. Quando arrivo in un punto leggermente più largo, mi preparo per affrontare la parte finale della strettoia all'altezza giusta. Con le spalle mi punto fra le due pareti, faccio leva con le gambe e avanzo di cinque centimetri. E' tutto molto stretto, ma si passa. Sono stanco: è curioso come si possano consumare tante energie per progredire - alla fine - solo di qualche spanna. Finalmente la sezione si fa più comoda, nel senso che fra il mio corpo e la roccia che mi contiene vi è qualche centimetro di aria. Un ultimo sforzo e sono fuori.

Mi volto a guardare la fessura e sono felice, a volte basta poco per rallegrarsi. Poi realizzo che per uscire, dopo il lavoro che dobbiamo fare, sarà necessario ripassare dalla stessa strettoia, solo più stanchi, bagnati ed infreddoliti… Ci penserò più tardi. Ora preoccupiamoci solamente delle lunghe gallerie che occhieggiano invitanti dall'altra parte della sala.
La strettoia, per il momento, può aspettare …

L'immagine ritrae Marino Quaiat (Boss) all'interno di una strettoia verticale che si stava cercando di allargare (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 18:56 | 1 comments
giovedì 25 gennaio 2007

Qualche volta bisogna mettersi davanti alla tastiera del computer e scrivere. Non hai un tema preciso in mente, ma le dita cominciano a comporre parole, frasi ed idee, che escono direttamente dalla tua testa. Per me è anche un momento liberatorio, di fuga temporanea dai problemi giornalieri (vedi lavoro) e spesso lascio volare la fantasia a briglie scolte.

Questa volta ne è uscito qualcosa di particolare. Sono partito dal voler descrivere genericamente alcune sensazioni che si provano nel visitare il sottosuolo e sono arrivato a catalogare tali sensazioni attraverso quelle che sono le singole capacità sensoriali dell’uomo: in pratica i suoni, gli odori, i sapori, le visioni e la materialità del mondo di sotto. Un viaggio, quindi, attraverso i cinque sensi, inseguendo i ricordi legati alla mia esperienza speleologica. Ecco, di seguito, il primo modo di percepire le grotte.

I suoni hanno sempre una certa importanza per connotare lo spazio nel quale ci troviamo, ma sotto terra questa importanza aumenta. Ti trovi in un ambiente dove, quasi sempre, il tuo campo visivo abbraccia solamente qualche metro attorno a te e dove, nel contempo, non ci sono interferenze acustiche dall’esterno. Ti accompagnano solamente i rumori della grotta e quelli che produci tu muovendoti nel buio. I primi bisogna saperli cogliere, perché sono tanti, complessi e sfuggenti, e devi concentrarti per recepirli tutti. Le gocce d’acqua che cadono dall’alto, se stai attento, possono fare molto rumore. Se ci sono tante gocce, potrai scoprire come ognuna - infrangendosi sulla pietra - abbia la sua tonalità, il suo timbro personale. C’è poi l’acqua che scorre. Non serve che ci siano torrenti impetuosi, basta un piccolo rigagnolo che fluisce fra le pietre per creare un articolato e multiforme concerto di suoni. E’ curioso notare come nel gorgoglio dell’acqua, ascoltando bene, si possano decifrare tante cose. Se fai attenzione puoi sentire voci di persone, versi strani e molto altro. Una volta, alla Fossa di Noglar, stavamo aspettando una squadra di appoggio con i viveri per il campo, ma questa squadra - per motivi tecnici - non è mai entrata in grotta. Noi che eravamo in attesa abbiamo comunque sentito, assieme al rumore provocato da un piccolo corso d’acqua, le voci dei compagni che ci dovevano raggiungere e tante sono state le discussioni nel cercare di definire la composizione del gruppo in arrivo sulla base delle parole che, tutti, udivamo in lontananza. Ma nell’acqua è possibile sentire non solo voci umane, ma anche versi di animali (una volta eravamo convinti che ci fosse una cane nella grotta che stavamo visitando, perché tutti sentivamo - illusoriamente - un abbaiare lontano), oppure altri suoni. Sempre in una grotta vicina al paese di Pradis, abbiamo sentito distintamente, fra i bisbiglii cristallini generati da un torrentello sotterraneo, la musica del grande carillon a gettoni che stava all’entrata delle grotte turistiche che si trovavano nelle vicinanze e abbiamo distinto chiaramente anche il motivo che stava suonando. In realtà questo carillon era rotto ed inutilizzato da anni.
Come dicevo prima, gli altri rumori che puoi sentire in grotta sono quelli provocati dagli stessi speleologi. I sassi smossi, il tintinnare dell’attrezzatura, qualche colpo su una colata che rimbomba o sulla concrezione che risuona... Recentemente ho assistito al famoso film intitolato “L’abisso”, girato all’interno della Spuga della Pretta con tecniche ed attrezzature moderne. Quello che mi ha colpito di più, oltre alle belle immagini, sono stati proprio i rumori. Bastava chiudere gli occhi e potevi percepire addirittura lo sfregare della tutta nella strettoia. Guardando questo film mi è venuta una certa nostalgia e devo rimediare con una visita a qualche bella cavità con acqua, come ad esempio, l’inghiottitoio dell’arco naturale, del quale riserbo bei ricordi. Sarà bello chiudere la luce e, nel buio, ascoltare ancora una volta i suoni sottili del sottosuolo. (Foto Guglia)

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posted by Paolo at 18:25 | 0 comments
mercoledì 17 gennaio 2007

Era il 1974. La Sezione Geo-speleologica della Società Adriatica di Scienze (ora Adriatica di Speleologia) aveva iniziato ad allargare le proprie attività esplorative verso il Friuli e più precisamente nella zona di Pradis Grotte.
Dopo alcune uscite preliminari, era stato deciso di procedere alla riesplorazione della grotta denominata Fossa di Noglar, sistema di gallerie pseudorrizontali interessate da vari corsi d’acqua, alle quali si accede attraverso un profondo pozzo verticale. Già allora c’era l’idea di poter non solo ampliare lo sviluppo della cavità, ma anche di riuscire a mettere in comunicazione la stessa con una vicina grotta denominata La Val (il collegamento è stato poi ottenuto dalla SAS nell’anno 1980).La nostra prima visita al Noglar è stata fatta da sei speleologi, guidati da Libero Degrassi. Dopo aver controllato la parte iniziale della grotta, si doveva risalire il pozzo d’accesso di circa 40 m. Allora si usavano ancora le scale ed il primo ad uscire, Massimo Halupca, ha pensato di salire per raggiungere un terrazzo a circa 6 m di altezza, senza collegarsi, però, alla corda di sicura. Dopo aver verificato che le scale fossero posizionate correttamente, Massimo è salito fin quasi sul terrazzo, ma ad un certo punto la scala ha ceduto. A causa del contraccolpo e dell’assenza della sicura, l’amico è quindi caduto rovinosamente fino alla base del pozzo. Ricordo ancora il tragico momento: nessuno aveva capito bene cosa fosse successo, ma Massimo era disteso fra le pietre e nell’acqua, dopo un volo di più di 5 m. C’è stato un attimo di panico, ma lentamente il ferito si è ripreso, accusando vari colpi a tutto il corpo ed un forte dolore alla schiena. Le operazioni per portarlo all’esterno sono state lunghe e complicate, ma alla fine siamo usciti tutti dalla cavità.
Considero questo fatto come un esempio della fortuna che spesso accompagna gli speleologi. Una manovra errata (la scala in realtà non era libera, ma risultava impigliata proprio in corrispondenza del terrazzino) che poteva trasformarsi in una tragedia, si è risolta in tanto spavento ed in una forte contusione, ben poca cosa rispetto a quello che poteva succedere realmente.
Massimo Halupca, in seguito alla caduta, ha sofferto per vari anni di dolori alla schiena, ma questo non ha impedito che diventasse un ottimo speleosub e che portasse a termine importanti esplorazioni subacquee in varie grotte allagate d’Italia.
L'immagine ritrae Max Halupca in risalita in un pozzo carsico (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 21:47 | 0 comments
martedì 16 gennaio 2007

E veniamo all'ultima categoria di opere sotterranee artificiali che in qualche modo considero speciali. Dopo aver accennato alle mie cavità preferite per quanto riguarda gli aspetti tecnici e storici, accennerò brevemente a quelle che possiedono particolari pregi costruttivo/architettonici. La prima che indicherei è il sotterraneo del Piazzale della Cattedrale (n. CA 300 FVG-TS). Si tratta di un piccolo ambiente, in parte di costruzione relativamente recente, che presenta caratteristiche uniche. Questo vano è stato realizzato per rendere raggiungibili le varie emergenze storiche presenti sotto il piazzale che si trova davanti alla cattedrale di San Giusto. E' possibile osservare il basamento del propileo romano e varie strutture risalenti a quel periodo. In un angolo vi sono delle basse nicchie facenti parte dell'antico ossario, una volta presente in questo sito. Vi sono, inoltre, i resti di una vecchia scala che portava originariamente all'esterno, ma anche una bella lapide di marmo scuro posizionata sul pavimento, che forse conduce ad ulteriori vani sottostanti utilizzati come sepolture. Sono osservabili, infine, varie tracce di vecchie murature, forse romane oppure medioevali, appartenenti a costruzioni oggi scomparse. Questa cavità rappresenta, per me, il riassunto di tutti i momenti storici che hanno caratterizzato la vita di Trieste e del suo colle capitolino, testimoniati al suo interno con una stratificazione di strutture e materiali di particolare interesse.
Sempre rimanendo sul colle di San Giusto, un altro ambiente sotterraneo che ritengo di grande importanza è quello conosciuto con il nome di Sotterraneo Veneto (n. CA 101 FVG-TS), sistema di vani intercomunicanti presenti all’interno del Bastione Rotondo del castello cittadino. La particolarità di questi ambienti viene data dalla progressiva modifica degli stessi effettuata nel tempo, in relazione al costante mutamento delle tecniche militari. In pratica, si è passati da ampi vani interni che interessavano su più livelli tutto il bastione, ad un progressivo interramento degli stessi, con la chiusura di singoli accessi ed il riempimento di molte stanze. Quello che possiamo visitare oggi, infatti, è ciò che rimane dopo i vasti lavori di consolidamento strutturale del bastione. E’ stato molto interessante forzare la chiusura di qualche porta murata (dopo aver ottenuto le opportune autorizzazioni del Comune), oppure calarsi dagli spalti per accedere alle finestrelle ed agli ambienti retrostanti, quasi interamente occlusi dai riempimenti di terra. Abbiamo così potuto accertare come il castello non sia stata un’opera militare "statica", ma che al contrario, cercando nel profondo dei suoi sotterranei, sia ancora oggi possibile leggere una lunga storia di modifiche e rifacimenti che hanno adattato la struttura alle esigenze belliche che via via si presentavano. In fatto, poi, che il castello sia stato coinvolto, nella sua lunga vita, solamente in due azioni militari, nulla toglie alla perizia degli architetti che sono intervenuti nel tempo sul fortilizio.
Un’ultima cavità che considero particolare per i suoi pregi architettonici è il sotterraneo del parco di Villa Sartorio (n. CA 128 FVG-TS). Si tratta di una serie di vani che sembrano risalire ad un epoca precedente alla costruzione della stessa villa e che qualcuno ha voluto legare alla presenza di un preesistente monastero. Al momento della nostra visita, percorso il giardino e scesa una scala lungo un muro di contenimento, abbiamo potuto accedere ad un bel portale in pietra, parzialmente celato dalla ricca vegetazione. L’impressione che ho avuto è stata quella di trovarmi davanti ad un ingresso monumentale di quelli che si possono immaginare quando si pensa ad una vecchia costruzione dimenticata nella foresta dove, nonostante i rampicanti nascondano le strutture, si può comunque percepire la bellezza di quanto costruito dall’uomo. In questo caso particolare, però, non ci trovavamo in un bosco sperduto, ma nel cuore della città, a pochi passi dalle vie trafficate del centro.
L’ampio portale, abbellito da nicchie e cornici, conduceva ad un primo vano, con alte volte a botte e finestre che si affacciavano all’esterno. Sempre al momento della mia prima visita, il sole penetrava da queste finestre con chiari raggi di luce che, attraversando l’aria ferma della stanza, creavano dei giochi di chiaro-scuro veramente suggestivi. Il sotterraneo continuava, con un vano che intercettava un pozzo (n. CA 129 FVG-TS) e si collegava ad un lungo passaggio, di caratteristiche costruttive analoghe, che usciva in via Duca d’Aosta.
Descrivendo questa cavità ho usato il passato perché mi è stato detto che, nel frattempo, il sotterraneo è stato pulito, risistemato ed utilizzato a fini museali. Personalmente, mi rimane il ricordo di un ambiente isolato, dalle belle forme costruttive e con un’ambientazione alquanto particolare, nascosto in un giardino del centro storico.
(Foto Guglia)

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venerdì 12 gennaio 2007

Cercando nuovi argomenti da trattare nel Blog, ho deciso di scavare nei miei ricordi alla ricerca di qualche fatto particolare ed ho concentrato l’attenzione su un tema un po’ insolito: gli incidenti in grotta. Probabilmente questo argomento può risultare a qualcuno macabro ed inopportuno, ma devo dire che le poche situazioni di questo tipo che mi hanno direttamente o indirettamente coinvolto non sono mai state di particolare gravità: qualche botta, un gran spavento, ma nulla di più.

Inizierò quindi parlando di una bella domenica di marzo dell’anno 1973. Si trattava della quarta uscita del primo corso di speleologia organizzato dalla SAS. Io allora ero un giovane allievo, pieno di entusiasmo ed energie. Dopo aver visitato la grotta Alce-Tilde, la Noè e la Fessura del Vento, abbiamo affrontato l’abisso Colognatti, una cavità complessa con pozzi non particolarmente profondi, ma con passaggi anche stretti e disagevoli. Allora si usavano ancora le scale e la discesa avveniva con precise manovre ed operazioni di sicura effettuate dall’alto. Dopo essere scesi verticalmente per qualche pozzo, ci siamo trovati in tre su un piccolo terrazzino. La verticale continuava ulteriormente per una decina di metri, mentre l’attacco delle scale si trovava ad una quindicina di metri sopra le nostre teste.
Quello che mi ricordo fu l’improvviso rumore, una specie di folata di vento che ha spento le fiammelle delle carburo, un forte dolore al ginocchio e poi il buio.
In particolare, l’ultima cosa che ho visto è stata una pietra dalla forma allungata, con l’asse maggiore di circa 80 cm, che si conficcava nella roccia appena a lato della mia gamba sinistra distesa, per poi piegarsi lentamente sopra il mio ginocchio. Sarebbero bastati pochi centimetri e, visto il peso della pietra, oggi avrei dovuto arrangiarmi con le stampelle. Fortunatamente il colpo si è scaricato direttamente al suolo e solo dopo il masso si è piegato per adagiarsi sopra il mio arto. Anche un altro dei miei compagni di sventura ha subito qualche danno, con una forte botta sempre al ginocchio.
Particolarmente impressionanti sono state la sensazione di forte calore che ho sentito nel punto dell’impatto, la completa oscurità e la polvere che impediva quasi di respirare. In seguito, fatto il punto della situazione, abbiamo realizzato che una notevole frana si era staccata qualche metro sopra di noi e, fortunatamente, aveva colpito solo quelli fermi sul terrazzino. Gli altri amici più in basso, infatti, avevano appena abbandonato il fondo di quel pozzo, proseguendo nella discesa.
I fatti che sono seguiti li ricordo appena: mi vengono in mente grandi lavori per spostare completamente il percorso delle scale, Sergio Dambrosi impegnato in una difficile arrampicata per fissare le corde e le operazioni di disgaggio delle pietre ancora pericolanti ed incombenti. Alla fine siamo usciti tutti, anche se con qualche ora di ritardo. All’esterno c’era un nutrito gruppo di speleologi intervenuti appositamente sul posto e mi sembrò quasi eccezionale il fatto di essere sollevato di peso nell’ultimo pozzo, senza dover fare alcuna fatica.
Oggi di quei lontani avvenimenti porto con me solamente una piccola cicatrice sul ginocchio sinistro e un’enorme riconoscenza ai miei genitori per non aver stroncato la carriera speleologica di quel ragazzino tanto entusiasta (allora non avevo ancora compiuto 15 anni… ).
La foto, di quel periodo, mi ritrae durante un lavoro di disostruzione.

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domenica 7 gennaio 2007

Sono ritornato nell’abisso di Trebiciano. Come avevo già precisato, è passato un po’ di tempo dall'ultima mia visita a questa grotta che, negli anni passati, ha visto invece una mia notevole ed entusiasta frequentazione.
L’occasione è stata quella della raccolta di dati da uno strumento posto lungo i pozzi ed i compagni di discesa sono stati due miei vecchi amici e colleghi, Aldo Fedel e Fabio Vatore.
Devo dire che la cavità si è presentata esattamente come me la ricordavo, forse solo con qualche cavo elettrico in più che la percorre. Un po’ di impressione l’ho avuta dalle scale metalliche che permettono di scendere lungo i pozzi: devo confessare che me le ricordavo più massicce e mi sono sembrate, quindi, un pelo “leggerine”. Ma reggono alla perfezione, perciò è solamente una mia impressione. Abbiamo disceso i primi sette pozzi e siamo quindi proseguiti lungo la caverna che si snoda sotto il cosiddetto “ponte del brivido”. Mentre Aldo armeggiava con lo strumento di misura, io e Fabio abbiamo fatto qualche foto e, personalmente, ho sperimentato una tecnica per me nuova che vede l'uso combinato di flash elettronici e di un faretto alogeno. I risultati sono stati mediocri, quindi bisogna ancora perfezionare tale metodo. La risalita si è svolta regolarmente e, gradino dopo gradino, mi sono venuti in mente i vari personaggi ed i singoli episodi che, nel corso della mia carriera speleologica, hanno caratterizzato questi pozzi. In particolare, ho anche riflettuto su una semplice constatazione: dieci anni fa non avrei neanche preso in considerazione una uscita all’abisso di Trebiciano che si fermi alla quota di meno 100, snobbandola come tempo perso. Oggi ho trovato, invece, soddisfazione e piacere scendendo solamente ad un terzo della grotta e ritornando all’esterno con calma e tranquillità. Gli anni passano e mutano di conseguenza anche gli schemi mentali e le aspettative. Devo però sottolineare che oggi ho avuto la possibilità di guardarmi attorno con attenzione, di vedere concrezioni che non pensavo esistessero in questa parte della cavità, di osservare le soluzioni tecniche adottate nella costruzione della ferrata e di cercare di individuare quei tratti di grotta nei quali i primi esploratori, 165 anni fa, si sono fatti largo a colpi di mina. Quand’ero giovane, questi dettagli non li notavo, in quanto bisognava scendere alla caverna Lindenr in poco più di mezz’ora, altrimenti dimostravi di non essere adeguatamente allenato. Ma i tempi, fortunatamente, cambiano e con l'avanzare dell’età si va in cerca – in grotta come nella vita – di cose diverse.
L’uscita è stata veramente piacevole, in compagnia di due persone che considero amici speciali. Quando il tempo lo permetterà, il prossimo obiettivo sarà quello di scendere al fondo della grotta, perché mi manca sempre un’immagine aggiornata del mitico Timavo. Speriamo succeda presto. (Foto Guglia)

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