mercoledì 27 febbraio 2008
In una recente occasione ho già parlato dell’inghiottitoio dell’Arco Naturale (n. 538 FR). Gran bella grotta, di quelle non stancanti, tranquilla, ma con tutta una serie di passaggi atletici e tecnici che devi superare se non vuoi finire nell’acqua del torrente che la percorre. Si tratta, infatti, di un inghiottitoio attivo, con un bel ruscello che segue lo sviluppo dell’intera grotta, dal pozzo d’ingresso fino al sifone terminale. D’inverno, quando il gelo blocca l’acqua nella sua forma cristallina, ho potuto vedere i pozzi d’accesso letteralmente rivestiti da colonne, stalattiti e stalagmiti di ghiaccio semitrasparente, un mondo fantastico dove una pennellata bianca aveva ricoperto pareti e pavimento di ricami e colate scintillanti. In questi momenti, la portata d’acqua raggiunge il suoi livelli minimi e permette una visita abbastanza comoda.
D’estate, invece, il discorso cambia. Il livello dell’acqua è direttamente legato alle precipitazioni esterne e nei periodi più piovosi la grotta sifona quasi all’inizio, proprio alla base dei primi pozzi. Riporto queste precisazioni perché, per quanto uno speleologo sia perfettamente al corrente dei meccanismi idrici di una grotta, nonché delle sue caratteristiche morfologiche e di smaltimento dell’acqua, vi sono comunque delle occasioni nelle quali può venirsi a trovare in seri guai.
Nel caso di cui vi voglio raccontare, non si è trattato di un vero e proprio incidente (un certo numero di speleo bloccati in grotta dalla piena rappresenta inevitabilmente un evento grave, in occasione del quale si allertano Soccorso Speleologico ed Autorità), ma sicuramente si può parlare di un incidente sfiorato, e sfiorato veramente per poco…
Erano gli anni ottanta e si stavano completando i rilievi della grotta. Saremmo stati in grotta in circa sei persone, fra le quali il sottoscritto. Il tempo non era proprio perfetto, ma c’era il sole e solamente qualche nuvoletta bianca si stagliava nel cielo. Le previsioni meteo indicavano, al massimo, qualche lieve nuvolosità. Noi dovevamo stare in grotta solo qualche ora, per cui non c’era motivo di preoccuparsi. In realtà, subito dopo che siamo entrati, dalla montagna soprastante l’ingresso è emerso un fronte di nubi nere e, dopo poco più di mezz’ora, è iniziato a piovere. In tutta la grotta, se stai attento, riesci a procedere senza bagnarti. L’unico punto in cui è quasi inevitabile una certa “umidità” e quello che viene chiamato il “passaggio sifonante”, posto presso l’ingresso. Questo passaggio, alto 80 cm, presenta alla base un laghetto di circa 10 cm di profondità e quindi - di norma - rimane un passaggio praticabile di 70 cm d’aria. La pioggia ha subito ingrossato il torrentello e ben presto abbiamo notato che l’acqua aumentava all’interno della grotta. Di conseguenza, rapido dietro front e veloce corsa verso l’uscita. Io ricordo d’essere stato l’ultimo della fila e sono rimasto impressionato nel vedere come si presentava il succitato “passaggio sifonante”: sotto, circa 70 cm di acqua che scorreva impetuosa e, sopra, non più di 10 cm di aria libera. Non sono mai stato un vero amante dei grandi bagni e degli avanzamenti estremi in passaggi allagati, ma in quel caso bisognava decidere in fretta. Un po’ di panico, qualche sorsata d’acqua, ma alla fine i circa 4 m di “passaggio quasi sifonato” sono stati superati. Ricordo che appena usciti, è ritornato subito il sole, ma il livello dell’acqua nella grotta, che rappresenta il punto di assorbimento di un vasto bacino, è continuato inesorabilmente a salire.
La vicenda è finita per il meglio, ma quella volta l’esperienza ha insegnato che in speleologia, anche se tutto è perfettamente programmato, possono sempre presentarsi gravi contrattempi. Immaginatevi cosa può accadere se il tutto viene preso alla leggera e senza il necessario buon senso…

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posted by Paolo at 18:31 | 0 comments
lunedì 25 febbraio 2008
Dopo aver parlato di sacchi a pelo e di attrezzature, accennerò al secondo avvenimento strano successo durante la visita all’Antro del Corchia del 1973. Stavamo risalendo i pozzetti e le lunghe gallerie del “Ramo degli Inglesi”, finché non ci siamo accorti di uno strano fenomeno: l’aria stava addensandosi in una leggera nebbiolina diffusa. Non si trattava di un po’ di vapore emesso da nostri corpi accaldati o della condensa del nostro respiro. Era qualcosa di completamente diverso. Dopo qualche minuto, l’atmosfera si è fatta ulteriormente nebulosa e la visibilità ha cominciato a ridursi decisamente. A questo punto è iniziato a farsi sentire anche l’odore: un sentore strano, che sapeva di umido e di fumo. Abbiamo quindi compreso, qualcosa stava bruciando nei rami profondi dell’Antro di Corchia. Non abbiamo avuto che pochi istanti per elaborare qualche congettura, finché il fumo si concentrato in maniera tale da obbligarci ad una sosta non programmata. Ricordo che ci siamo seduti in circolo e che, lentamente, anche la figura dell’amico che ci stava davanti è svanita nella nebulosità sempre più fitta. Ad un certo punto, oltre a proteggerci con un fazzoletto annodato sul viso (oggi non si usa più, ma allora tutti avevamo un “foulard da combattimento” che ci portavamo sempre appresso nelle più svariate avventure), abbiamo anche deciso di chiudere quasi tutti i sistemi di illuminazione, per sprecare il meno possibile carburo e batterie. L’atmosfera era quasi surreale: noi seduti a poco più di un metro di distanza l’uno dall’altro, che non riuscivamo più a vederci a causa del fumo, ad una profondità di circa 400 m sotto terra. Il tutto è durato forse mezzora, poi il respiro della grotta ha portato il fumo verso altre fessure e gallerie. Quando è stato nuovamente possibile, abbiamo ripreso la risalita, fino a giungere al campo dei “fiorentini”, ove abbiamo incontrato gli ultimi uomini che stavano predisponendo gli ultimi sacchi. E’ curioso prendere atto come, questi speleo affermassero, in tale occasione, che loro ci tenevano alla pulizia della grotta e - quindi - quale soluzione migliore se non quella di bruciare tutti i rifiuti prodotti dal lungo campo interno? Bisogna poi dire che, per un gioco di correnti d’aria, loro di fumo non ne hanno visto tanto, in quanto lo stesso è stato trasportato e si è concentrato nel punto in cui l’abbiamo incontrato noi.
Prima di abbandonare definitivamente il campo, gli amici “fiorentini” stavano completando di sotterrare i rimasugli del piccolo rogo, per cancellare tutte le tracce del loro passaggio. Ricordo ancora con sgomento come, fra i residui del fuoco, fosse ancora visibile un lembo di nailon appartenente ad un sacco di pelo di piuma usato durante il campo stesso.
Ora, dopo moltissimi anni, mi resta la soddisfazione di poter affermare che, se molti speleologi sono rimasti bloccati in grotta da una piena (tanta acqua), ben pochi possono vantare di essere stati bloccati dal fumo di un incendio. La speleologia è bella perché è varia…

L’immagine ritrae una bella cascatella lungo il “Ramo degli Inglesi” (Foto SAS).

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posted by Paolo at 11:11 | 0 comments
domenica 17 febbraio 2008
In quello che vi racconterò di seguito non centrano le grotte. Sembrerà strano, ma anch’io - talvolta - mi diletto in cose che, solo marginalmente, centrano con il sottosuolo. Ieri ero con degli amici di un’associazione di volontariato a fare la manutenzione di un bosco nei pressi della città. Si trattava di togliere i rami secchi, di strappare qualche rovo e di raccogliere i rifiuti che, nel tempo, sono stati accumulati da persone poco attente a quello che hanno attorno.
Dopo aver sistemato un’area ed aver fatto un po’ di fatica, ci siamo spostati in un’altra zona del bosco, per continuare nel lavoro. A questo punto, io e Mariagrazia ci siamo allontanati dal gruppo per parlare delle problematiche dell’associazione. Discorrendo, la mia amica ha approfittato della situazione per mostrarmi un punto del bosco che non conoscevo ancora. Abbiamo percorso un ripido sentiero in salita, fino ad arrivare ad alcune piccole vasche dove, nei mesi piovosi, si raccoglie l’acqua. Il posto era semplicemente delizioso: la vegetazione, favorita dalla presenza dell’acqua, era fitta e rigogliosa. Il sole splendeva e, nonostante la giornata fosse abbastanza fredda, sembrava quasi che in quel piccolo angolo di natura facesse più caldo. L’atmosfera era luminosa, con i raggi di luce che filtravano fra le foglie di alcuni arbusti sempreverdi. A quel punto ho detto a Mariagrazia come quel posto sembrasse quasi magico e lei mi ha risposto dicendo “E’ vero, ascolta, puoi sentire perfino la voce degli alberi…”. Sembrava una frase fatta, ma in quel preciso momento ho veramente percepito il vento che passava fra le foglie dei cespugli e fra gli steli del piccolo canneto che avevamo alle spalle. Era proprio vero, sembrava che gli alberi mi parlassero…
Siamo subito scesi e siamo ritornati dal gruppo. Dopo un po’ ci siamo salutati ed ognuno è ritornato a casa sua. Vi sembrerà stupido, ma in automobile mi sono sentito felice. Avevo assaporato qualche ora di sole, avevo gioito dell’aria fresca, mi ero immerso nella natura ed avevo sentito perfino la voce degli alberi… cosa si può pretendere di più?

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posted by Paolo at 15:46 | 2 comments
domenica 10 febbraio 2008
La frequentazioni di ambienti oscuri e tenebrosi può portare a spiacevoli sensazioni e, talvolta, l’immaginazione può galoppare liberamente. Ho già scritto un racconto su questo argomento, che però riguardava la manifestazione di una entità buona e positiva. Di seguito affronterò lo stesso tema, anche l’ipotetica ambientazione potrebbe essere la stessa, ma con un finale completamente diverso. E se ci fosse qualcosa di maligno che ci aspetta fra le volte annerito di qualche vecchio sotterraneo?

Paura (racconto)

Non era mai successo, non me lo sarei mai immaginato, ma è accaduto proprio qualche giorno fa! Si trattava di una semplice uscita di rilevamento in un vecchio sotterraneo della città, come ce ne sono tanti. La struttura risaliva al 1600 e presentava qualche interessante possibilità di prosecuzione. Come spesso accade, dovevamo essere almeno in cinque speleologi, ma - alla fine - ci siamo trovati solamente in due: io e la mia appassionata collega Valeria. Ottenute le chiavi del pesante portone e preparata l’attrezzatura, siamo subito scesi nella cavità, per prendere alcune misure che avevamo tralasciato nella precedente visita. Fin dall’inizio ho notato che qualcosa non andava, l’atmosfera era decisamente pesante, faceva caldo e - pur sapendo che non c’era alcun gas nocivo e che l’ossigeno non mancava - si respirava quasi a fatica. Non c’era alcun fenomeno concreto, c’era più che altro una strana sensazione, un nodo che ti prendeva alla gola e ti bloccava il fiato. Per qualche minuto, comunque, tutto è andato per il meglio: abbiamo misurato una stanzetta laterale ed abbiamo preso qualche fotografia. Poi, all’improvviso, la lampada elettrica di Valeria ha smesso inspiegabilmente di funzionare. Nonostante avessimo provato e riprovato con i contatti, con l’interruttore e con i fili di collegamento, la lampadina si rifiutava di accendersi. Valeria, dotata di una piccola torcetta di emergenza, ha quindi pensato che era meglio procurarsi una nuova luce, per cui si è avviata verso l’ingresso - si trattava di superare solamente qualche decina di metri di basse gallerie - per arrivare allo zaino e prendere una nuova fonte di illuminazione. Immerso nelle mie misurazioni ho semplicemente annuito, così Valeria è ritornata verso l’ingresso ed io sono rimasto solo. Sono bastati pochi secondi ed è subito iniziata la più strana, incredibile e terrorizzante esperienza della mia vita. Ho già detto che in quel sotterraneo faceva stranamente caldo ma, immediatamente, la temperatura ha iniziato ad abbassarsi: da un’atmosfera quasi soffocante si è rapidamente passati ad un clima freddo che metteva i brividi alla schiena, ed il tutto è successo in pochi attimi. Poi ha iniziato a manifestarsi una strana corrente d’aria, anch’essa gelida. Non proveniva da nessuna direzione precisa, ma era concreta, reale e ti avvolgeva da tutte le parti. In quelle condizioni il fiato ha iniziato subito a condensarsi, quale ulteriore conferma che qualcosa stava effettivamente accadendo. A questo punto, seguendo le folate d’aria, la polvere ha iniziato a sollevarsi dal pavimento, ma anche una specie di nebbia filamentosa ha cominciato a materializzarsi davanti ai miei occhi. Non sagome distinte, ma lente volute di bianco fumo, a volte trasparente a volte più denso, che si inseguivano nella stanza. Sembrava quasi che questa particolare nebbia si accendesse di una sua propria ed interna luminescenza. Per finire, ho iniziato a sentire i rumori. Non so se posso chiamarle voci, in quanto non ho recepito alcuna parola coerente, ma in quel piccolo ambiente era possibile udire sussurri, sospiri, lamenti, brandelli di parole che passavano dal bisbiglio al grido improvviso. Quest’ultima manifestazione ha fatto sì che mi riscuotessi e che reagissi alla strana situazione nella quale ero stato coinvolto. Lo spiffero d’aria può avere una spiegazione naturale, il cambiamento della temperatura può essere legato, eventualmente, all’apertura del portone d’ingresso, ma i fenomeni erano troppi, collegati e contemporanei. Non posso affermare di credere alle apparizioni che comunemente vengono chiamate “fantasmi”, in quanto non ho mai avuto l’occasione di entrare in contatto con tali insolite presenze, ma in quella piccola camera sotterranea si stavano raccogliendo per me, e tutti in una volta, gli avvenimenti più inspiegabili e misteriose di cui avessi mai sentito parlare. Di solito mi reputo coraggioso, se si tratta di situazioni gestibili e collegate ad eventi che in qualche modo si possono comprendere. In questo caso, invece, non c’era nulla da capire: stavano accadendo cose che trascendevano dal piano della ragione e che traevano origine da dimensioni sconosciute e straordinarie.
Non potevo fare altro che fuggire. Ho corso veloce, più veloce che potevo, fino a raggiungere l’ingresso. Valeria mi ha guardato dubbiosa, mostrandomi come la lampada che all'interno del sotterraneo si era rifiutata di funzionare ora, presso l'ingresso, si fosse riaccesa da sola. Penso di aver trattato bruscamente l'amica, ma ho preso lo zaino e sono uscito immediatamente, senza dare alcuna giustificazione. Non sarei mai più entrato in quel sotterraneo!
Qualche giorno dopo ho avuto finalmente il tempo e la forza per riordinare lo zaino. Ho trovato il taccuino pieno di appunti ed ho sorriso pensando che quel rilievo, almeno per quanto mi riguarda, non sarebbe mai stato completato. Poi ho trovato la macchina fotografica digitale e, con curiosità, l’ho subito collegata al computer. Erano memorizzate circa una decina di immagini, che avevo raccolto non appena entrato nei passaggi sotterranei. Ma quella che più mi colpì fu l’ultima fotografia, che non ricordavo nemmeno di aver scattato: si vedeva distintamente la strana nebbia che mi vorticava attorno ma, osservando bene, si poteva anche notare come - in un punto particolare - questa si fosse addensata a formare una figura riconoscibile. Non so dire se si trattasse della sagoma di un uomo o di una donna, ma era distinguibile un corpo, si notavano delle braccia protese e sul monitor del computer era chiaramente visibile una faccia con tanto di naso, bocca ed occhi. Sono questi ultimi che mi hanno colpito di più: sembravano due buchi profondi, due vortici che aspiravano la luce e riflettevano solo un nero assoluto e senza fine. Con movimenti lenti ho tolto la schedina di memorizzazione dal computer e l’ho infilata in fondo al cassetto della scrivania. Non so se avrò ancora il coraggio di guardare quella foto e vedere nuovamente quegli occhi di tenebra. Mai avrei immaginato di pensare alle mie future esplorazioni urbane con un senso di profondo disagio. Ma non era possibile superare facilmente quello che avevo vissuto, almeno non per il momento. Spero solo che in futuro avrò ancora la forza di entrare in qualche altra galleria ipogea della mia città perché, per oggi, non se ne parla nemmeno. Vi chiederete se si tratta di paura? Ebbene si, ho paura che ancora una volta la temperatura cambi, che si sollevi uno spiffero d’aria gelida, che si materializzi una strana nebbia che, danzando con movimenti imprevedibili, si addensi in una figura riconoscibile. Ho paura, e non me ne vergogno. Non so se lo dirò agli altri, se spiegherò cosa è successo, ma l’unica certezza è che - per il momento - mi dedicherò a belle passeggiate in montagna ed all’aria aperta. Escursioni alla luce del sole, dove i fantasmi e le ombre del passato non vogliono, o non possono, farsi vedere. Almeno lo spero…

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posted by Paolo at 18:59 | 0 comments
domenica 3 febbraio 2008
Ho già ricordato come io abbia iniziato a frequentare le grotte da giovanissimo. Un corso veloce di speleologia con la SAS, qualche cavità scesa per allenamento in Carso e, con l’arrivo dell’estate, visita all’Antro di Corchia in Toscana. A quindici anni appena compiuti, un’esperienza di questo genere può essere esaltante.
Recentemente ho trovato alcuni appunti di allora che riguardavano questa avventura e, leggendo quelle pagine, mi sono ricordato di alcuni particolari che avevo completamente rimosso.
La spedizione è stata così organizzata: partenza da Trieste al mattino presto, breve sosta a Levigliani ed arrivo alle baracche della cava di marmo. Cena e veloce dormita, quindi preparazione dei materiali ed entrata nella “Buca di Eolo”. Da quel momento in poi, solamente una sequenza di spettacolari passaggi: il Gran Canyon, il Pozzacchione, il Pozzo delle Lame, il Portello, fino ad arrivare nella zona del campo. Da questo punto, invece di seguire la via del fondo come inizialmente programmato, abbiamo optato per una visita del “Ramo degli Inglesi”, allora appena scoperto. Gran bella grotta, con pareti levigate e corsi d’acqua, ma anche con gallerie dai ricchi e spettacolari concrezionamenti.
Al quarto giorno, smantellato il campo, sono iniziati la lenta risalita verso l’esterno ed il recupero dei materiali: bisogna evidenziare che a quei tempi si usavano ancora le scale e che quindi i sacchi erano numerosi e pesanti (ricordo alcuni di questi dalle dimensioni esagerate…).
Ci sono, però, due avvenimenti che - pur facendo parte integrante dell’uscita sotterranea - ho sempre tenuto in secondo piano rispetto alle vicende prettamente speleologiche. Penso sia interessante, però accennare anche a queste due circostanze.
Il primo fatto riguarda il nostro incontro con i “fiorentini”. Non ricordo a quale gruppo appartenessero, ma mi sovviene questa provenienza (forse anche sbagliata). Resta il fatto che, ad un certo punto, siamo incappati in questo campo: molto ben organizzato, posizionato in un’area relativamente comoda, con tanta gente e molti materiali. Qualcuno stava facendo da mangiare, mentre altri stavano ancora dormendo. Noi, memori delle attrezzature che avevamo portato da Trieste, siamo stati subito colpiti da una particolarità: quegli speleo non usavano gli scomodi ed ingombranti sacchi a pelo militari che avevamo noi, ma erano attrezzati con multicolori e morbidi sacchi a pelo in piuma di tipo alpinistico (allora una cosa molto rara ed estremamente costosa). Quello che ci sorprese di più è stato, però, il modo in cui queste attrezzature venivano trattate: alcuni sacchi a pelo erano strappati e scuciti, altri semplicemente buttati nel fango, uno addirittura bruciacchiato dal fuoco. Per noi era qualcosa di incomprensibile. Come era possibile trattare in quella maniera delle attrezzature così particolari e costose? La risposta era semplice: il gruppo speleologico era stato dotato di sacchi a pelo in piuma di ultima generazione per effettuare un test di “utilizzo estremo”. Bisognava trattarli malissimo, sfruttarli il più possibile e nelle condizioni più gravose. Non c’erano comunque problemi, per ogni sacco a pelo rovinato e fruttato all’interno della grotta, la casa produttrice - una volta all’esterno – ne avrebbe comunque fornito uno nuovo. In pratica, più si usava male ed intensamente il sacco a pelo, più c’era la sicurezza di riceverne uno ancora imballato in cambio del collaudo effettuato. Non so quali potessero essere i reali accordi fra il produttore ed i collaudatori, ma questo è stato quello che ci è stato raccontato al momento. Per noi, era una vera e propria depravazione trattare in quel modo delle attrezzature che, praticamente, non potevamo permetterci.
Ricordo che quando siamo ritornati al nostro campo ed io mi sono infilato nel mio grosso, scomodo e pesantissimo sacco a pelo militare di costruzione americana, ho pensato come in molte occasioni l’attrezzatura possa veramente fare la differenza e trasformare campi freddi e scomodi in momenti caldi ed accoglienti. Poi ho pensato come, in ogni caso, anche il mio vecchio sacco facesse il suo sporco dovere, anche se con un ingombro maggiore e qualche chilo in più.
Al momento di uscire, ho avuto la tentazione di scavare un buco e lasciarvi dentro il mio sacco a pelo tanto grosso e pesante, ma poi - premendo, strizzando e pigiando - sono risuscito a farlo entrare in un sacco ed abbiamo iniziato la risalita ed il lungo trasporto dei materiali verso l’uscita. Quel vecchio sacco mi è stato compagno fedele in numerosissime altre avventure ed esplorazioni, e solo molti anni dopo è stato sostituito da un prodotto più moderno, leggero e “performante”. Non so dove ora sia finito, ma mi piacerebbe averlo ancora nell’armadio a ricordo dei tanti momenti sereni passati assieme.

L’immagine ritrae il campo dei “fiorentini”. Mi scuso se ho sbagliato la provenienza di questi amici speleo e se qualcuno avrà l'innaspettata sorpresa di rivedersi in quel contesto, ben 35 anni dopo i fatti descritti (Foto SAS).

(Continua)

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posted by Paolo at 15:34 | 0 comments