lunedì 26 febbraio 2007

Basta allontanarsi dalla città di Trieste ed è possibile trovare un altro importante punto dove si sono concentrate le notizie della presenza di particolari sotterranei. La baia di Sistiana, oggi in uno stato di notevole degrado ed in attesa di radicali interventi di ristrutturazione urbanistica, è stata sede (nel 1944) di una base tedesca di sommergibili tascabili Molch (Salamandra). Questo è un fatto accertato e sono disponibili varie documentazioni storiche, come ad esempio quelle riportate nell’ottimo sito internet curato dall’amico Claudio Pristavec. Ci sono voci, però, che non limitano questa base a delle semplici strutture di superficie, ma indicano la presenza di un bacino sotterraneo un tempo collegato al mare. In questo bacino, attraverso una galleria, entravano i sommergibili che potevano trovare un sicuro ricovero presso queste banchine protette. Quando si parla di questa caverna, emergono particolari addirittura inquietanti (come il fatto che vi siano ancora due sommergibili ancorati al suo interno), ma nessuno riesce a indicare esattamente il suo accesso. C’è sempre un amico, un parente, un conoscente che è entrato in questa camera sotterranea, ma poi non c’è nessuno che riesca a ricordare il punto esatto dell’ingresso. C’è chi indica il paretone posto sotto quello che viene chiamato “l’occhio del diavolo” (si tratta di un posto di vedetta strapiombante sul mare, appartenente al retrostante sistema fortificato), ma centinaia di subacquei hanno perlustrato l’area - per altro ricca di acque dolci sorgive - senza trovare nulla. Altri hanno puntato l’attenzione su un tratto intermedio delle falesie fra Sistiana e Duino, ed altri hanno addirittura fatto riferimento all’area subito sottostante la cosiddetta “galleria naturale” presente lungo la strada costiera. Tante indicazioni, ma nessun riscontro positivo. Si è parlato di frane, di esplosioni che hanno occluso la bocca originale di accesso. Alcuni hanno anche avanzato l’ipotesi che l’ingresso sia stato realizzato molto più al largo rispetto alla linea di costa ed è per questo che non è stato ancora ritrovato.
Tante sono state anche le ricerche fatte a terra. Nel corso degli anni, intere generazioni di giovani ardimentosi hanno esplorato minuziosamente ogni palmo della parete strapiombante, visitando i vari cunicoli praticati nella roccia a pochi metri di altezza rispetto al piazzale. In alcuni è stato rilevata la presenza di cisterne piene d'acqua, in altri i cunicoli piegano ad angolo e si interrompono improvvisamente. Non è chiaro quale utilizzo abbiano avuto questi passaggi scavati nel calcare, ma è certo che non conducono a nessuna ampia caverna facente parte dell’approdo ipogeo. Anche il complesso sotterraneo posto nell’angolo ovest della vecchia cava è stato accuratamente analizzato. Sono state visitate le gallerie dotate di più ingressi, la postazione in caverna per il cannone da 88 mm, il ricovero chiuso originariamente da porte corazzate e la postazione per la mitragliera.
Si tratta di un interessantissimo complesso, che non presenta però ulteriori sviluppi sconosciuti. Una decina di anni fa, era emersa la notizia che nel camping realizzato sopra il bordo della cava sia stato rinvenuto un sistema di scale in muratura che scendeva in profondità, ma ogni ulteriore ricerca in tale direzione non ha portato a risultati concreti. Altre presunte testimonianze (sempre indirette e lacunose) ricordavano come la grande frana presente lungo la parete della cava non fosse altro che un accumulo di materiali provocato con un’apposita esplosione a chiusura dell’ingresso della caverna. Nonostante alcuni sondaggi, le ingenti dimensioni della frana non hanno permesso di rintracciare nulla di nuovo. Nel corso delle ricerche, ognuno ha cercato di seguire le tracce che riteneva più importanti. C’è chi ha seguito l’aria, percorrendo un breve cunicolo che, effettivamente, presenta un’anomala corrente ascensionale, ma per il momento senza alcun risultato. C’è poi chi ha seguito l’acqua, constatando come - durante i grandi acquazzoni - l’intero piazzale si allagasse in seguito ad una massiccia fuoriusciva idrica dai materiali posti alla base della parete verticale, ma anche questo indizio non ha portato ad alcun ritrovamento.
Esiste, quindi, la base dei sommergibili? Come sopra affermato la base è effettivamente esistita, con uno sviluppo in superficie di cui sono reperibili documenti e fotografie. Molto più difficile credere nella presenza di una grande caverna allagata all’interno della quale si attraccavano i sommergibili, in quanto nonostante le ricerche, nessun indizio della sua presenza è mai stato rintracciato. Personalmente, penso che la base sotterranea sia una leggenda, la convinzione di alcuni ricercatori basata più sulle speranze di un eccezionale ritrovamento che su elementi oggettivi e concreti.
Certo, nel caso qualcuno riesca a forzare una fessura e trovare il bacino sotterraneo con due sommergibili ancorati alle banchine, mi chiami pure. Mi rimangerò volentieri le mie affermazioni, farò penitenza e sarò quindi disponibilissimo a dare una mano nel proseguo delle ricerche.

La foto ritrae la parte più a nord-oves della baia di Sistiana, quella dove sono presenti alcune fortificazioni sotterranee (Foto Guglia)

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 17:00 | 0 comments

Ho avuto la tentazione di cambiare la parola visioni con immagini, ma poi non ho fatto la sostituzione. Parlare di immagini è qualcosa di generico: ogni grotta riserba una sequenza di immagini che ci appaiono via via alla vista e riassumono l’ambiente a seconda delle caratteristiche morfologiche dello stesso. Ho lasciato, invece, il termine visioni perché si lega di più ad un concetto di fantasia, ad una interpretazione individuale, a delle sensazioni visive che colpiscono direttamente e suscitano meraviglia in maniera diversa in ciascuno di noi.

Sulla base di questo ragionamento, vi posso parlare solamente delle mie percezioni personali. Le visioni che io conservo delle grotte sono tante ed ognuna è particolarmente significativa. La prima potrebbe essere quella della grande caverna Lindner, sul fondo dell’Abisso di Trebiciano, illuminata a giorno dai fari. Si trattava di una ripresa per un documentario sulla grotta ed in tale occasione ho avuto il piacere di chiacchierare a lungo con Miran Hrovatin, cameraman molto esperto e simpatico, in seguito deceduto assieme alla giornalista Ilaria Alpi durante un’inchiesta televisiva in Somalia. L’ampia caverna illuminata in tutti i suoi dettagli, il monte di sabbia con ai suoi piedi il fiume Timavo, le tante asperità delle pareti evidenziate dai chiaroscuri delle fotofore, penso rappresentino uno spettacolo unico per un vero speleologo.
Ma ci sono altre visioni nella mia memoria. Una di queste è sicuramente la grande voragine dell’inghiottitoio di San Canziano, nella vicina Slovenia. Le alte pareti e la forza del fiume che viene inghiottito sono un richiamo irresistibile per chi ama il sottosuolo. Ho sempre preferito le grotte di San Canziano a quelle di Postummia: le prime sono l’esempio concreto delle dinamiche della natura, del potere dell’acqua che, in milioni d’anni, riesce ad intaccare perfino la durezza della viva roccia. Considero invece Postummia quasi come un forviante modello per i turisti, una specie di luna-park ipogeo. Tantissime e bellissime concrezioni, certamente, ma le grotte non sono tutte così perfette e spettacolari, e giudico sbagliato far credere questo ai visitatori paganti. Un’ultima visione potrebbe essere quella, solo per me speciale, dei sifoni della Fossa di Noglar. Dopo un campo di alcuni giorni al suo interno, dopo aver fatto varie risalite, aver scavato una frana ed essere penetrati nei rami nuovi, abbiamo raggiunto una sala sul fondo della quale occhieggiava un vasto e profondo lago. Camminando su una specie di cengetta laterale, abbiamo seguito questo lago finché la volta non andava quasi a raggiungere la superficie dell’acqua. La particolarità del sito appena scoperto, la trasparenza assoluta dell’acqua, la sensazione che il sifone quasi respirasse, rafforzando l’idea che oltre quel passaggio la grotta continuasse con ulteriori lunghi passaggi, il rumore delle sacche d’aria che gorgogliavano lungo la volta quando muovevi la superficie dello specchio d’acqua, la presenza di un caro amico come Libero Degrassi, mi portano a ricordare quel luogo - e quindi la visione che ne conservo - come qualcosa di veramente importante.

L'immagine ritrae la grande caverna Lindner illuminata dai fari, durante le riprese del documentario (Foto Guglia).

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 16:40 | 0 comments
mercoledì 21 febbraio 2007

Rovistando fra le mie carte, ho trovato un racconto che ho scritto due anni fa, dopo una gita sul costone carsico nei pressi di Santa Croce. Non è certamente di argomento speleologico, ma lo inserisco lo stesso nel blog. Analizzandolo oggi, vedo che alcuni temi sono ricorrenti (a volte sono abbastanza ripetitivo nello scrivere), ma complessivamente non mi dispiace.

Vento


Il vento soffia forte, oggi. Folate potenti sollevano terra e polvere, creando mulinelli fumosi sullo spiazzo pietroso.
Le piante si piegano stridendo. Gli alberi più alti seguono ubbidienti le forti raffiche, i cespugli sottostanti si muovono scomposti, travolti dai vigorosi colpi d'aria. Foglie di ogni colore, gialle, rosse, marroni, si inseguono veloci con percorsi inaspettati e fruscianti fra i rami secchi.
Il mare, sotto di me, ha un colore verde turchese. Sembra spianato da una forza gigantesca, che preme e stira, lasciando sul suo percorso trucioli bianchi si spuma salmastra.
La luce è strana, falsa. Il sole, ancora basso, filtra tra le nubi con una luminosità calda ed obliqua, che risalta ogni piccolo particolare.
Si può vedere lontano, questa mattina.
La pianura, con i suoi paesi, con le sue macchie più scure dove l'aratro ha lasciato il segno, si stempera con le prime alture. Dietro, illuminate e lucenti, le montagne imbiancate dalla prima neve si staccano nette dallo sfondo più grigio, dove nuvole e terra si toccano definitivamente.
Fa freddo. Quel freddo secco e pungente che ti entra nelle ossa, che si amplifica ad ogni colpo di vento.
Osservando più in basso, posso intravedere un gabbiano, che plana sospinto e sorretto dalle correnti d'aria. Penso che sia bello farsi guidare da forze così potenti. Non puoi opporti, non servirebbe a nulla, devi solo lasciarti andare ad una cosa tanto più grande di te, alla quale devi affidarti completamente. Forse i momenti più difficili sono solamente l'inizio e la fine, l'istante in cui da un posizione sicura ti infili nel turbinio del vento e poi quando devi cercare d'uscirne. E' come succede nella vita, quando inizi il tuo cammino con mille paure per quello che dovrai affrontare e, dopo aver percorso tutto il tuo volo, ti ritrovi vecchio e stanco, con l'angoscia di dover lasciare tutto ciò che hai fatto e sei stato, con il terrore di uscire dalla corrente e fermarti, senza sapere quali sorprese ti riserverà l'ultimo colpo di vento e dove ti depositerà il flusso inesorabile del destino.
Mi piace pensare a ruota libera guardando l'orizzonte, in questo angolo solitario sospeso fra cielo e mare, circondato da rocce bianche e dalla natura aspra del Carso.
Mi piace, per un momento, non dover subire i problemi di ogni giorno, il traffico, la spesa, i soldi, il lavoro ….
Mi piace fare forza sulle gambe e fronteggiare il vento, con la sensazione che forse una folata più forte delle altre potrebbe farmi perdere la presa e strapparmi da questa roccia.
Mi piace come la natura mi stia ricordando che tutto ciò che mi circonda è stato prima di me e rimarrà ancora, come tutto l'affannarsi di tanti piccoli uomini si annulla nel tempo a confronto del piccolo sasso di pietra bianca che, arso dal sole e intriso dalla pioggia, esiste da millenni affacciato al mare. Improvvisamente i problemi di ogni giorno, il traffico, la spesa, i soldi, il lavoro, mi sembrano più piccoli ed insignificanti …. Chissà, forse sarà il freddo o il colore del mare ….

(1 gennaio 2005)

Etichette:

 
posted by Paolo at 21:12 | 1 comments
giovedì 15 febbraio 2007

Ho già parlato di incidenti in grotta, ma quest’ultima volta accennerò ad un episodio che riguarda, invece, le cavità artificiali. Si tratta forse dell’unica situazione di reale pericolo nella quale mi sono trovato personalmente in anni di frequentazione delle opere sotterranee realizzate dall’uomo.
Nell’anno 1997, è stata avviata una campagna di ricerche riguardanti il sito denominato sorgenti di Aurisina. Abbiamo esplorato vasche, gallerie allagate e cunicoli vari utilizzati per la raccolta dell’acqua inviata, dal 1857, alla città di Trieste. Un pomeriggio stavamo esplorando, io e Gabriele Crevatin (Lele), i vari bacini di captazione. Si tratta di ambienti che sono stati realizzati erigendo una diga davanti alle pareti di roccia naturale e coprendo il tutto con un solaio in calcestruzzo. Vani particolari, quindi, dove da una parte si può osservare la nuda roccia dalla quale sgorgano alcune sorgenti, dall’altra la diga di sbarramento e sotto l’acqua che ancora oggi si accumula in notevole quantità. Per poter percorre questi bacini è stata realizzata, all’epoca della loro costruzione, una specie di passerella sospesa, formata da una struttura portante metallica e da un tavolato in legno per il passaggio degli addetti. Tale passerella risulta oggi in pessimo stato di conservazione: la ruggine ha pesantemente corroso le parti in ferro ed il piano in legno è quasi completamente marcito, se non assente. Siamo scesi attraverso una botola affidandoci ad una scala verticale che sembrava di costruzione relativamente recente ed in buone condizioni. Dopo aver perlustrato un po’ le camere di raccolta dell’acqua, abbiamo deciso di ritornare sui nostri passi, perché la passerella non dava alcuna garanzia di resistere anche al nostro semplice passaggio. Giunti sotto la botola, ho affrontato per primo la salita, forse solamente tre/quattro metri per uscire all’esterno. Fatti alcuni scalini, però, ho avuto una spiacevole sorpresa. Con un improvviso schianto la scala si è quasi sbriciolata fra le mie mani e mi sono ritrovato a cadere fino alla sottostante passerella. Non vi racconto degli attimi di puro panico quando l’esile struttura intaccata dalla ruggine ha iniziato a piegarsi e dondolare, ma alla fine ci siamo guardati negli occhi: il passaggio sospeso aveva tenuto. Mi domando ancora oggi cosa sarebbe successo se la passerella fosse crollata, trascinandoci nell’acqua sottostante, dalla quale - per la conformazione delle pareti e per la presenza di grandi quantità di fango scivoloso - era praticamente impossibile uscire. A quel punto, però, bisognava in qualche modo riguadagnare la superficie e vi lascio solo immaginare i tanti tentativi fatti per raggiungere con un cordino, appesantito da alcuni moschettoni, una specie di maniglione fissato presso l’entrata.
Tutte è andato per il meglio, ma da allora ho sempre una certa diffidenza nei confronti delle scale metalliche. Quella in questione, che ha ceduto in un modo così improvviso ed inaspettato, era una struttura in ferro che si presentava solida e con montanti di una certa dimensione, eppure il tutto si è disfatto lasciandomi nelle mani solamente due mozziconi di profilato arrugginito.

Nell’immagine si può vedere la passerella arrugginita che sovrasta i bacini di captazione (Foto Guglia).

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 18:08 | 0 comments
martedì 13 febbraio 2007

Ci sono solamente tre circostanze che mi vengono in mente pensando ai sapori delle grotte, ovviamente non considerando il gusto delle allegre mangiate e bevute doverose ad ogni uscita dalle cavità. La lampada a carburo è uno strumento magico, che in una combinazione quasi alchemica unisci acqua e pietre dallo strano aspetto, per formare un filo di gas infiammabile. Questo fuoriesce da un beccuccio posto sul casco e la fiammella che ne deriva crea una particolare e calda zona di luce attorno allo speleo. Questo, ovviamente, quando tutto funziona per il meglio. In altri casi, però, la lampada si intasa, i collegamenti interni si ostruiscono ed il gas non fuoriesce più da dove dovrebbe fuoriuscire. Il novellino quasi sempre esagera con l’acqua e blocca definitivamente il funzionamento del sistema. Gli esperti, invece, puliscono il serbatoio, controllano attentamente il flusso idrico e, tolto il casco, si impegnano in un bacio profondo con il beccuccio. Si tratta di sturare il forellino, con un azione di risucchio che liberi ogni passaggio dalle incrostazioni. Il risultato è, di norma, qualche sbaffo di colore nero sulle labbra ed un sapore inconfondibile in bocca: un misto di carburo e nerofumo, condito con un po’ di fango ed un leggero retrogusto metallico. Questo, per me, è uno dei pochi, veri e genuini sapori della speleologia.
Un altro sapore delle grotte è quello del fango. Mi riferisco al fango liquido, quello nel quale ti distendi per passare e che ti avvolge nel suo viscido abbraccio. Contorcendosi a terra spesso succede di schizzarsi argilla anche sulla faccia ed in breve tempo questa (l’argilla non la faccia) si asciuga, incrostandosi sulla pelle. Ti resta quindi sulle labbra un sapore strano, che io considero il sapore della fatica, il gusto del guadagnarsi metro dopo metro arrancando in strettoie bagnate ed infangate, solo per vedere cosa si trova dall’altra parte del buio.
L’ultimo sapore è quello cristallino dell’acqua. Le grotte sono state scavate proprio dall’acqua, ma molto spesso questa se n’è andata da tempo, lasciando ambienti oggi completamente asciutti. E’ quasi un incubo la sete che talvolta ti assale dopo la permanenza in grotta di molte ore e non cerchi altro che una piccola presenza fluida sulla parete per ricavarne qualche goccia ristoratrice. Ricordo con particolare intensità una piccola pozza limpida che si trovava alla base del Pozzacchione all’Antro di Corchia, in Toscana. Questa pozza, tenuta pulitissima dagli speleo locali e dotata di alcuni accessori - rammento una specie di pentolino in alluminio dal lungo manico - permetteva di dissetarsi nella via verso l’uscita. Verso il fondo non c’erano invece problemi, perché l’acqua non mancava di certo. Dopo un campo di tre giorni nella cavità ed aver percorso in lungo e largo il ramo degli inglesi, allora appena scoperto, durante il trasporto dei materiali verso l’ingresso sono incappato, quasi per caso, in questa vaschetta e ricordo ancora il sapore fresco, delicato e lieve, di quell’acqua tanto appagante per la mia sete.

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 21:16 | 0 comments
mercoledì 7 febbraio 2007

Seconda puntata sulla leggenda dei sotterranei. Dopo aver affrontato i sotterranei dell’Inquisizione che si vogliono posti nelle fondamenta della chiesa di Santa Maria Maggiore, allarghiamo il discorso a tutto il centro storico della città di Trieste.

Siete entrati nell’estesa rete di sotterranei sotto Cittàvecchia? Per prima cosa bisogna chiarire cosa si vuole intendere per estesa rete. Se con questo termine vogliamo indicare un complesso articolato di passaggi praticabili, con molti corridoi intercomunicanti e vari accessi, la risposta non può che essere negativa. Se invece pensiamo alla presenza di vari passaggi sotterranei, vicini fra di loro anche se non direttamente collegati, allora possiamo avvicinarci alla situazione reale che abbiamo riscontrato. L’area della cosiddetta Cittàvecchia è quella dove ha trovato origine e si è sviluppata la città di Trieste e, nel tempo, l’evolversi del centro urbano si è stratificato in un susseguirsi di costruzioni ed adattamenti. Gli attuali edifici sono stati realizzati su case rinascimentali, che si sono sovrapposte a fondamenta medioevali, a loro volta edificate su opere romane. In questo susseguirsi di interventi è ovvio che qualcosa sia rimasto nel sottosuolo: ai cunicoli romani si sono affiancate le cantine più recenti, le canalizzazioni ottocentesche e così via. E’ perciò perfettamente normale che, in un’area interessata da duemila anni di storia, si possano trovare tutta una serie di opere sotterranee appartenenti ai vari periodi. Nelle nostre ricerche abbiamo trovato pozzi romani, acquedotti, cunicoli, scantinati ed intercapedini che, pur non collegandosi necessariamente l’uno all’altro, formano un articolato mosaico di passaggi ipogei.
Ma allora è possibile entrare nella Rotonda Pancera ed uscire dalla chiesa dei Gesuiti? Scendere dal castello ed arrivare fino al mare? Oggi, purtroppo, ciò non è fattibile. Nonostante le tante ricerche svolte, non sono stati rintracciati questi estesi collegamenti ipogei voluti dalla tradizione, che però tante volte sono stati riportati nelle molte testimonianze raccolte. Si tratta allora di indicazioni false? Probabilmente il meccanismo che ha creato la voce popolare che vuole l’intero rione percorso da lunghi passaggi deve essere inquadrato in un contesto specifico e particolare. Ci sono sicuramente vari punti che da sempre rappresentano potenziali accessi ai sotterranei. Possiamo localizzare questi ingressi nella chiesa di Santa Maria Maggiore, nella Rotonda Pancera, nel Castello di San Giusto, nella tor Cucherna, presso l’Arco di Riccardo, in via dell’Ospitale ed in altri vecchi edifici posizionati nel rione. Questi punti rappresentano quindi, per la tradizione, le entrate ai sotterranei. Oggi sappiamo che tali entrate portano a limitate prosecuzioni, ma per la fantasia popolare è stato facile immaginare come ogni ingresso sia stato necessariamente collegato con tutti gli altri. Non importa che nessuno ha avuto la possibilità di percorrere questi passaggi, l’idea è comunque plausibile e logica. Ecco così nascere il primo intreccio di cunicoli, come se la planimetria di questi collegamenti fosse stata tracciata a tavolino, collegando con delle linee rette i punti notevoli posti sulla carta. Ma vi sono, comunque, altre opere che si inoltrano nel sottosuolo. Vi sono pozzi, tratti di gallerie e vari cunicoli per l’acqua. Ricordo di aver visionato una mappa delle canalizzazioni idrauliche ottocentesche del rione di Cittàvecchia, dove era possibile vedere estesi canali sotterranei posti lungo le strade, con dimensioni più che ragguardevoli ed altezze che raggiungevano quasi i due metri. Passaggi quindi perfettamente praticabili, che si sovrapponevano ed intrecciavano a quelli presunti ed alle varie opere minori puntuali. Ecco quindi l’estesa rete che abbraccia tutto il rione. Tutto frutto della fantasia? Certamente no, perché le credenze popolari nascono sempre da qualche fatto concreto. Si racconta, ad esempio, che negli anni venti una commissione di Pubblica Sicurezza abbia operato intensamente nel chiudere alcuni passaggi sotterranei interessati da un uso illecito degli stessi. Peccato che il dossier della commissione non sia oggi accessibile e quindi non si sappia esattamente quali interventi siano stati fatti e quali pertugi ostruiti.
L’importante è perseverare nelle ricerche, aumentando - di giorno in giorno - la conoscenza del sottosuolo di Cittàvecchia. Non dispero completamente di trovare qualche sconosciuto passaggio che possa dare - in futuro - una nuova interpretazione alla teoria del sistema di cunicoli. Forse un giorno, qualcuno entrerà dal castello ed uscirà veramente da qualche altra parte del rione. Speriamo di essere noi a cogliere questo importante risultato, che potrebbe rappresentare il coronamento di anni di studi e di ricerche.

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 18:25 | 0 comments
lunedì 5 febbraio 2007

Breve racconto, forse leggermente triste, ma al quale sono molto legato. L’ho scritto un po’ di tempo fa ma qualche volta, nel rileggerlo, mi emoziono ancora.

Paolo si avvicinò al bordo del pozzo, con il suo sacco di colore giallo acceso pieno corde e materiali. Era successo tanto volte nel passato e la buia apertura che occhieggiava di fronte a lui, riportava a momenti di serenità e giovinezza. Ma erano trascorsi tanti anni e molte cose erano cambiate. Le situazioni mutano, nel corso della vita. Un gioco di equilibri fra famiglia, interessi, lavoro, compiti, responsabilità e progetti. Più che di equilibri, molto spesso si tratta di compromessi, tentativi di conciliare dovere e volere, te stesso e gli altri.
Paolo non si sentiva bene, era da un po' di tempo che faceva finta che tutto fosse normale, ma purtroppo non era così. Non solo i piccoli acciacchi dell'età, non solo la mancanza di allenamento che rende pesante e penoso quello che un tempo era facile e divertente, ma anche qualcosa di più. Il medico era stato chiaro. Se si fosse interessato prima, se si fosse preoccupato ai primi sintomi, se, se …
Ma non è andata così.
Paolo non si era mai interessato a quei dolorini, alle sensazioni strane che a volte provava, al malessere che a momenti l'assaliva, perché era qualcosa che sarebbe passato non appena avrebbe avuto un po' di tempo da dedicare a se stesso. Bastava curarsi di più, stare attenti nel mangiare e nel bere, fare un minimo di movimento fisico, superare l'angoscia che l'attanagliava quando pensava al lavoro e tutto si sarebbe risolto. Non era ancora il momento, c'erano tante cose da fare, tanti obblighi e necessità, ma prima o poi, con un po' di attenzione e sacrificio, tutto si sarebbe risolto.
Ma non è stato così.
Si avvicinò ulteriormente all'orlo, cercando con gli occhi i chiodi dove tante altre volte aveva fissato i moschettoni, stendendo le corde e scendendo nel vuoto in compagnia degli amici. Trovò subito il punto di attacco e, con movimenti lenti, fece un nodo perfetto all'estremità della fune. Era sempre stata una sua mania quella fare dei nodi da manuale: anche se non eseguiti a regola d'arte sostengono sempre lo stesso carico, ma la perfezione è segno di tecnica ed esperienza, e Paolo possedeva entrambe.
La corda, quindi, si allungò nel vuoto, filo sottile che si perde nel buio. Non rimaneva che posizionare il discensore, controllare ancora una volta i moschettoni e scendere.
Paolo guardò il bosco di pini che rigoglioso cresceva sulla destra e la boscaglia, di un verde intenso, che rivestiva la dolina. Seguì con lo sguardo, gli arbusti, i fiori, i singoli fili d'erba che spiccavano chiari, illuminati dal sole, contro il nero profondo dell'abisso.
Erano belli quei fili d'erba. Erano stupendi quegli alberi. Era caldo il sole.
Paolo, dopo aver osservato un'ultima volta tutto questo, sorrise, scavalcò l'orlo del pozzo senza alcuna indecisione e puntò direttamente verso il nero, che per lui rappresentava serenità e momenti felici. Scese veloce passando dalla luce al buio, che lo circondò e l'avvolse. Per sempre.
Il giorno dopo, gli amici che lo cercavano trovarono il sacco di colore giallo acceso, con sopra ben posizionati alcuni moschettoni, il discensore e l'attrezzatura di risalita.
Paolo aveva deciso che, per quella volta, era meglio un rapido volo incontro all'oscurità ed all'oblio. Non era più necessario risalire. Per l'ultima esplorazione, quella luminosa giornata di sole era proprio l'ideale.
Gli amici, quando compresero, si sedettero sul bordo del pozzo e piansero in silenzio ….

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 21:58 | 0 comments
venerdì 2 febbraio 2007

Come nel caso dei rumori, anche parlando degli odori delle grotte, possiamo differenziarne due distinte categorie: quelli specifici dell’ambiente nel quale ci si trova e quelli portati dall’uomo.
Chiunque abbia frequentato il mondo sotterraneo avrà ricordo del buon odore di terra bagnata che si può sentire all’ingresso delle tante grotte presenti sul Carso. E’ un odore di natura umida, di muschio, di humus e foglie secche, che ti segue nella parte iniziale della cavità. Poi, addentrandoci ulteriormente in profondità, tutto cambia e rimane solamente l'odore dell’argilla e del fango, che è abbastanza simile a quello che si può trovare in superficie, ma con l’evidente assenza di materie organiche. Nelle grotte prive di riempimenti, formate solamente da nuda roccia, puoi invece percepire - in alcuni casi - l’odore della pietra che si spacca. In alcune aree del Carso, infatti, se colpisci una pietra puoi sentire un odore particolare, che definirei bituminoso, comunque inconfondibile. Quando stai disostruendo e ti apri la via scavando nella viva roccia, il tuo ristretto mondo - se ti trovi in presenza di questo litotipo - sarà permeato dal particolare odore del calcare frantumato.
Fino a qui le sensazioni olfattive che si possono provare nell’ambiente naturale della grotta. A questo punto, però, entra in scena lo speleologo. Non si tratta di una caratteristica necessariamente negativa, ma lo speleologo ha inevitabilmente un odore tutto suo. Sarà per la tuta che troppe volte ha strisciato nel fango, sarà per le fettucce, i moschettoni e gli attrezzi spesso incrostati di argilla e di schifezze varie, sarà per l’utilizzo della lampada a carburo, sarà - in generale - per la pigrizia nel ritardare il più possibile il lavaggio dei materiali personali, però lo speleologo emana, sempre e comunque, un suo particolare aroma. Qualcuno considera tale odore una vera e propria puzza (questa è solitamente l’opinione di mamme e fidanzate), altri pensano si tratti invece di un vero aroma, l’elemento distintivo dello speleologo esploratore di abissi. Probabilmente la verità sta nel mezzo: è normale che, con l’utilizzo, i materiali acquisiscano una fragranza naturale, caratteristica ed identificativa dell’attività svolta in grotta. Allo stesso tempo, la tuta bagnata lasciata inavvertitamente chiusa nello zaino per due settimane, emana un lezzo tanto caratteristico, quanto insopportabile. Quest’ultima circostanza avviene molto più spesso di quanto si possa immaginare, ma in fondo non si tratta che di una delle tante manifestazioni originali e caratteristiche del variegato e multiforme mondo della speleologia.


La foto ritrae uno dei tanti ingressi di grotta, umido e muscono, presenti sul nostro Carso. (Foto Guglia)

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 07:03 | 0 comments
giovedì 1 febbraio 2007

Talvolta, l’attività speleologica comporta anche lunghe camminate in ambienti difficili. Per trovare nuove grotte, o individuare quelle già conosciute, risulta spesso necessario muoversi in montagna, nei boschi, fra le rocce e lungo i torrenti. Ed è proprio di una visita lungo un corso d’acqua che vi voglio raccontare.
Sarà stato l’anno 1982 ed un gruppetto di tre speleologi stava percorrendo la stretta valletta di un torrente alla ricerca della grotta di Mulin Vecchio. C’eravamo io, Bruno Vittori (Bobo) e Paolo Tamaro (Tam). Lo stretto sentierino che stavamo seguendo si snodava a circa una decina di metri dall’acqua, lungo uno scosceso pendio con alberi e roccette. Aveva piovuto, perciò la terra bagnata e lo strato di foglie morte erano alquanto scivolosi. Si procedeva con attenzione, guardando dove si mettevano i piedi lungo quella pista appena tracciata e, nel contempo, cercando l’imbocco della grotta che volevamo esplorare. Ad un certo punto, però, Bruno ha perso l’equilibrio e, lasciato il sacco che trasportava, ha iniziato a scivolare verso il torrente. Ogni tentativo per fermare la sua caduta è risultato vano e l’amico ha iniziato ad acquistare sempre più velocità lungo il pendio. Probabilmente, il tutto si sarebbe risolto con un arrivo tragicomico nell’acqua, con sollevamento di alti schizzi e risa da parte di chi stava guardando la scena, ma a questo punto è successo un fatto imprevisto. Trasversalmente al pendio c’era un piccolo tronco d’albero e Bruno ha deciso di puntarsi su questo per fermare la sua scivolata. Il risultato è stato, però, leggermente diverso da quanto voluto. Dal mio punto di osservazione ho potuto vedere il malcapitato fare forza sul tronco, fare perno sullo stesso e, alzandosi in un plastico ed ampio volo, puntare verso alcune grosse pietre sul fondo della valletta. L’arrivo nel torrente è stato quindi violento e di testa. Noi due, rimasti sul sentiero, abbiamo così potuto osservare Bruno completamente disteso nell’acqua, con un leggero alone rosso che si allargava attorno. Momenti di tensione nel scendere la scarpata e raggiungere il ferito, metterlo all’asciutto e verificarne i danni. Alla fine solo un profondo taglio al cuoio capelluto, tanto sangue, ma nessuna altra conseguenza. Ricordo, a proposito, un piccolo battibecco fra il sottoscritto e Paolo Tamaro sul fatto che lui aveva un fazzoletto pulito con il quale volevo tamponare la ferita, ma era indeciso se metterlo a disposizione per paura che si macchiasse troppo. Risolto anche questo piccolo ostacolo, non è rimasto che ritornare mestamente verso le macchine, rinunciando all’esplorazione ipogea domenicale.
Questo episodio mi fa riflettere sulle tante situazioni di pericolo in cui si possono trovare gli speleologi, non solo in grotta, ma anche nelle marce di avvicinamento. Se penso a certi percorsi seguiti sul Canin, con zaino ed anche due sacchi di materiali in spalla, lungo crestine taglienti, frastagliati karren, fra fessure, buchi e spaccature varie, devo dire che è quasi strano come nessun - negli anni - non si sia rotto almeno una gamba transitando per questi impervi terreni.

Nell’immagine scattata in quel periodo si può vedere una bella valletta di montagna che abbiamo percorso per ricercare nuove grotte. Non si tratta di quella descritta nel testo, ma le sue caratteristiche ricordano da vicino il luogo dell’incidente (Foto Guglia).

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 07:04 | 0 comments