giovedì 30 agosto 2007

Domenica, giornata soleggiata ideale per un bel giro in montagna lungo le fortificazioni della 1° guerra mondiale.

Mentre alcuni consoci hanno deciso di dedicarsi ad una salita più impegnativa (Jof Fuart), Cristian, Valeria ed il sottoscritto hanno optato per una destinazione sicuramente più facile da raggiungere, ma indiscutibilmente di notevole interesse. Penso che molti, salendo lungo la vallata che da Pontebba porta ai campi di sci di Pramollo, (lungo il corso del rio Bombaso) hanno visto sulle pareti opposte alla strada una vecchia mulattiera di guerra che, scavata nella roccia (con alcune parti oggi franate), si perde verso le alture soprastanti. Io l’avevo adocchiata da almeno trent’anni e per tutto questo tempo mi sono proposto di organizzare una sua visita accurata. L’itinerario che abbiamo scelto si è sviluppato, nella sua prima parte, proprio lungo questa vecchia traccia. Oggi il sentiero è segnalato dal CAI ed alcune parti più esposte sono state attrezzate con scalini metallici e cavi. Questo percorso permette di alzarsi e di raggiungere la sommità di quello che viene chiamato Cucuzzolo Scalzer (in verità si tratta di due cime vicine, ma nettamente distinte), dove sono state costruite varie postazioni militari nel corso della Grande Guerra. Tali postazioni, realizzate dalle truppe austro/ungariche, si presentano oggi abbastanza ben conservate, se non altro per la rara presenza di gitanti lungo questi sentieri.
Dopo aver raggiunto la zona interessata, abbiamo potuto visitare terrazzamenti, trincee, cavernette e opere sotterranee che, in molti casi, contengono ancora le strutture originali di puntellamento in legno. Il posto è veramente bello, con splendidi boschi di faggi ed abeti, e con notevoli panorami sia verso la vallata che porta a Passo Cason di Lanza, sia verso i monti che sovrastano il passo di Pramollo. Un elemento di grande interesse viene dato dalla presenza di alcune lapidi, poste agli ingressi delle caverne sotterranee a ricordo dei vari reparti militari che le hanno scavate. Raramente ho potuto vedere iscrizioni così ben conservate (curiosamente quasi tutte abbellite con disegni in puro Jugendstil - stile floreale) e la loro presenza riesce a dare una sensazione più precisa relativamente al posto che si sta visitando: non solo scavi e semplici adattamenti del terreno, ma luogo che ha visto la permanenza di soldati, cioè di uomini che hanno soggiornato per lungo tempo fra queste cime isolate, con volontà e capacità, ma anche con tanti disagi e prolungate sofferenze.
Molto particolare, infine, una caverna dallo stretto ingresso che, in una stanzetta dotata di feritoia, presenta ancora oggi varie strutture in legno facenti parte dell’allestimento interno originale, fra cui un tavolino perfettamente conservato.

Le immagini rappresentano due vedute delle opere militari sotterranee presenti nell’area del cucuzzolo Scalzer (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 12:21 | 0 comments
martedì 28 agosto 2007

Come già descritto , dopo aver riposato alla meglio ed aspettata la notte, abbiamo deciso di provare nuovamente. Sono quindi scesi Marino, Ferruccio ed il sottoscritto. I primi due hanno raggiunto facilmente - senza alcuna difficoltà - il piccolo terrazzo a circa metà grotta e quindi è arrivato il mio turno. Passati i primi tre spezzamenti, ho affrontato la grande campata in libera formata da quasi duecento metri di tiro unico. La corda si posizionava esattamente al centro del pozzo e le pareti distavano circa una decina di metri. Percorsi i primi 160 m di corda, mi sono fermato in corrispondenza di un nodo che univa due spezzoni di fune. Non si trattava di una operazione difficile o complessa, ma comunque era necessaria una certa attenzione per quello che si stava facendo. Mentre ero indaffarato nella manovra, ho sentito distintamente un rumore che si faceva sempre più forte. Difficile descriverlo, ma poteva assomigliare al fischio vibrante che un armadio produce precipitando nel vuoto. Non so perché allora mi è venuta in mente questa strana immagine, ma ben presto dal buio è emerso un blocco biancastro di ghiaccio che mi ha sfiorato e che, sibilando, è andato a schiantarsi, con un sordo boato, sul nevaio posto qualche decina di metri sotto i miei piedi. La mia paura è stata ampliata non solo dal fatto che quel blocco è passato a non più di due metri da me, ma dalla sorpresa nel constatare come anche di notte, nonostante la temperatura più bassa, tale fenomeno continuasse a ripetersi. Ero quasi incredulo e ricordo che guardavo spaventato le mie gambe, in parte ricoperte da un sottile strato di neve scesa assieme alla massa principale. La conclusione della prima parte della discesa si è svolta, quindi, con molta apprensione e con qualche caduta minore di neve lungo il pozzo. La seconda parte della verticale ha riservato invece ulteriori difficoltà: non solo il ghiaccio che precipitava andava a concentrarsi in un punto più ristretto della grotta, ma anche l’acqua, che cadeva abbondante da vari arrivi secondari posti lungo le pareti, nebulizzava rendendo difficile la respirazione.
Nonostante vari tentativi, non siamo riusciti a raggiungere la base del pozzo ed abbiamo così dovuto arrenderci ed iniziare la lenta risalita. Giunti nuovamente sul piccolo terrazzino, ci siamo trovati in tre: io, Ferruccio ed un bel sacco di PVC arancione con dentro 200 m di corda bagnata. Ovviamente il sacco non sarebbe risalito da solo e bisognava decidere chi si sarebbe sacrificato per il suo recupero. Non rimaneva che tirare a sorte. Pagliuzza lunga, pagliuzza corta ed è così che mi sono guadagnato sul campo un bel premio: una risalita in compagnia. Sarà stato l’allenamento non perfetto, la paura legata alla caduta dei blocchi di ghiaccio (che ci hanno accompagnato per tutto il tempo), oppure per la graziosa zavorra che mi sono attaccato alla cintura, ma quegli ultimi 200 m mi sono sembrati eterni. Alla fine siamo usciti tutti quanti e tutte le corde sono state recuperate. Fuori ha iniziato a piovere, poi a grandinare e quindi ci siamo ficcati in cinque in una piccola tendina canadese da due. Abbiamo aspettato l’alba e, sistemati gli zaini e caricati i sacchi, siamo scesi verso Papingo.
Se sotto l’aspetto prettamente sportivo non si è trattato di un grandissimo risultato (il fondo, alla fine, non è stato raggiunto), l’esperienza complessiva, però, è stata bellissima: conoscere posti lontani con una natura selvaggia ed incontaminata, affrontare un lungo avvicinamento alla grotta e discendere in una cavità che si è dimostrata complessa e pericolosa. La compagnia, poi, era ottima e quindi ne è valsa sicuramente la pena.
Unica certezza: non affrontare mai più la Provatina in primavera, nel periodo del disgelo.
Ricordo ancora il nostro addio all’altipiano di Astraka e la visione mozzafiato delle profonde gole del fiume Vikos. Uno spettacolo tanto emozionante che, molti anni dopo, ho portato la mia neo/moglie a visitare questi luoghi durante il viaggio di nozze (la ringrazio ancora per la pazienza dimostrata).

Nelle foto si possono vedere uno dei vari sprofondamenti presenti sull’altipiano di Astraka che abbiamo controllato in cerca della Provatina e la parte iniziale del grande pozzo (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 18:32 | 0 comments
domenica 26 agosto 2007
Quando si parla di gite in montagna, ci sono casi in cui tutto va male ed i contrattempi si sommano fino a diventare insormontabili. Altre volte, invece, tutto va per il meglio ed è possibile riunire grandi soddisfazioni a grandi panorami.
Parlerò di un’escursione in alta montagna, fatta con amici, sulla cima della Presanella (3.558 m). Questo gruppo montuoso è veramente imponente, con ampi ghiacciai e creste affilate. La vetta principale è poi caratterizzata da uno scivolo di neve ghiacciata alto 600 m, con una pendenza che varia dai 45° ai 55°. E’ stato questo l’obiettivo delle nostre uscite: la direttissima nord della Presanella. In verità, infatti, ci sono volute due distinte "spedizioni" (nel senso che non si è proprio vicini a Trieste) per riuscire nella salita: un primo tentativo, fallito miseramente per il brutto tempo ed una serie di imprevisti che si sono inanellati fino a farci fare tanto tardi da dover ritornare ben presto sui nostri passi. Di questa prima esperienza ricordo solamente delle interessanti prove dei materiali sulle pareti verticali dei vari seracchi del ghiacciaio. Durante il secondo tentativo, invece, tutto è andato per il meglio, con una salita veloce, sicura ed in condizioni climatiche ottimali. Ci siamo trovati al rifugio Denza in tre: io, l’amico Aldo Fedel e l’allora socio SAS Paolo Pezzolato (Fox). La partenza è avvenuta prestissimo alla mattina, come per altro bisogna sempre fare quando si deve affrontare un ghiacciaio ricco di crepacci. L’aggirare le profonde spaccature, affrontare le varie paretine e superare gli esili ponti di ghiaccio, ci ha fatto perdere un po’ di tempo, ma ben presto siamo arrivati alla base dello scivolo. Se si immagina un piano inclinato di 50° visto dal basso, questo forse non sembrerà molto ripido e si può pensare ad una progressione spedita e non particolarmente impegnativa. Immaginate però lo stesso piano inclinato visto dall’alto, incassato fra ripide rocce scure, con alla base i crepacci del ghiacciaio: la pendenza è sempre la stessa, ma l’impressione certamente cambia. Ho precisato questo perché ricordo che tutta la salita non ha mai presentato difficoltà elevate, ma come ci si alzava di quota era sempre più impressionante guardare verso il basso. Quando, infine, siamo usciti quasi sulla vetta, lungo una esile cresta innevata, vi assicuro che lo spettacolo faceva quasi paura: da quel punto di vista sembrava che lo scivolo fosse verticale, un muro bianco che si sprofondava ripidissimo verso il ghiacciaio sottostante. La vetta è risultata un punto particolarmente panoramico, con vista a 360° su tutte le montagne circostanti. Anche la discesa non ha presentato particolari difficoltà, se non qualche punto più delicato con roccette e creste ghiacciate esposte.
Come dicevo, una bella escursione in alta montagna, che richiede comunque una certa preparazione. Si tratta, infatti, di una salita di almeno 8 ore (parlando di persone allenate) ed una discesa di almeno altre 5 ore. Un’escursione che raccomando solamente a chi possiede la preparazione e l’allenamento per affrontarla in tutta sicurezza.


L’immagine ritrae Aldo Fedel nella parte sommitale dello scivolo ghiacciato (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 22:20 | 0 comments
mercoledì 22 agosto 2007

Penso che gli unici che conoscono bene questa storia sono solamente i diretti interessati ma, trascorsi tanti anni, è oggi possibile confessare a tutti quello che è successo nel ventre dell’altopiano carsico di Pradis. Ovviamente devo spiegare a cosa mi riferisco e fare un po’ di storia.
La SAS operava da qualche tempo nell’area di Pradis Grotte e, su indicazione di qualche consocio proveniente da un altro gruppo, si cercava allora di fare qualche importante ritrovamento nella Fossa di Noglar, grotta nella quale la SAG aveva lavorato per molti anni. Il nostro progetto era quello di trovare un ingresso secondario, di rilevare i rami interni e di procedere con il collegamento alla vicina grotta di La Val. Ad esclusione del primo obiettivo, gli altri due traguardi sono stati ampiamente raggiunti.
Ma procediamo per gradi. Dopo qualche uscita preliminare per ambientarci, è stata organizzata la spedizione che doveva portare ai primi concreti risultati. Si trattava di strisciare lungo i cunicoli (i cosiddetti "bigoli") per quasi due chilometri, raggiungere le grandi caverne terminali, organizzare un campo interno e procedere quindi nei rami finali in cerca di nuove prosecuzioni. La squadra era composta, complessivamente, da una decina di persone. Un primo gruppo doveva entrare con un giorno di anticipo e portare un po’ di materiale per la progressione e qualche attrezzatura per il campo. Il secondo gruppo doveva invece trasportare tutto il materiale rimanente e dare man forte nelle esplorazioni. Non ricordo bene tutti i componenti della spedizione, ma sicuramente nella prima squadra c’eravamo io, Libero Degrassi, Aldo Zadro e - mi sembra – Walter Baldinelli (Baldo). Nella seconda squadra rammento Erwin Pichl, Maurizio Lussetti (Leo), Roberto Hechic e qualche altro.
Noi siamo entrati con puntualità e, dopo aver percorso strisciando tutti quei lunghissimi passaggi alti non più di 50 cm, siamo arrivati alle grandi caverne terminali. Dopo aver trovato il punto adatto, abbiamo fissato i teli di nailon, sistemati i sacchi a pelo, organizzata la cucina e preparata la riserva d’acqua. A questo punto ci siamo messi a riposare, in attesa della seconda squadra. Sono passate le ore, ma nessuno arrivava all’appuntamento. Abbiamo così iniziato a preoccuparci, non essendoci nessuna possibilità di comunicare con l’esterno. Con molte ore di ritardo abbiamo sentito, finalmente, qualche voce ed ecco comparire la squadra che stavamo aspettando, con le dovute attrezzature.
Anche da una prima occhiata si poteva capire, però, che qualcosa non aveva funzionato: intanto si trattava di sole quattro persone rispetto alle sei previste e poi mancavano all’appello vari sacchi di materiali. Guardando in faccia gli amici, era inoltre evidente che era successo qualcosa di grave e ben presto abbiamo compreso di cosa si trattava: una ricca festa a base di salsicce e di vino si era conclusa in un’ecatombe alcolica, con compagni tramortiti e altri dispersi nei boschi attorno all’ingresso.
I reduci dei bagordi, sistemati gli infermi, avevano cercato di raggiungerci, trasportando a caso qualche sacco, ma da una verifica approfondita è risultato che tutte le riserve del mangiare e parte del materiale da campo (sacchi a peli e materassini) erano rimasti all’esterno.
A questo punto sono scoppiati improperi ed imprecazioni, ma il danno era oramai fatto: nonostante le buone intenzioni, non era possibile sostenere il campo per il tempo inizialmente previsto.
Fatta una rapida votazione, quasi tutti hanno deciso che, non essendoci nulla da fare, bisognava uscire. Solamente io e Libero Degrassi abbiamo invece optato per rimanere ancora in grotta, razionando quel poco che rimaneva da mangiare.
E’ a questo punto che è stata fatta un’azione non proprio encomiabile: vista la nostra scelta di rimanere in grotta, l’unico sacco con i viveri è misteriosamente scomparso dietro a delle concrezioni. Gli altri, decisi ad uscire, avevano previsto di fare fuori tutto quello che era disponibile prima di cercare di dormire qualche ora, per poi dirigersi verso l’uscita. C’è stata quindi una grande delusione quando questi speleo "rinunciatari" hanno dovuto coricarsi a pancia vuota.
Dopo la partenza degli amici siamo rimasti in due e devo dire che, vista la grande amicizia che ci legava, è stata una gran bella esplorazione. Abbiamo trovato e rilevato svariate centinaia di metri di nuovi cunicoli e gallerie, compresa una grande caverna ed un ampio sifone che raccoglie tutte le acque di quel settore di cavità.
Un accenno bisogna farlo, però, anche ai viveri che avevamo nascosto. Aprendo il sacco ci siamo accorti che questo conteneva, oltre a qualche scatoletta di tonno, solamente una bella riserva di cioccolato in polvere Nesquik ed un contenitore con cicoria lessata. Non so chi abbia previsto e preparato tali strani cibi, ma è con questi che ci siamo alimentati per i tre giorni che abbiamo passato nella parte profonda della Fossa del Noglar. L’ultimo giorno, si sono assottigliate notevolmente le scorte: era rimasto solamente il fondo del contenitore con la cicoria ed un vasetto di cioccolato. L’idea geniale è stata quella di unire i due componenti: ricavando così un’innominabile intruglio di cicoria alla cioccolata oppure, se preferite, di cioccolata alla cicoria. Oggi fa senso solo a sentirne parlare, ma in quell’occasione ci siamo contesi fino all’ultimo boccone.
Anche di questa esperienza mi rimangono alcuni punti fermi: il primo riguarda l’opportunità di evitare feste e bevute prima di una spedizione speleo. Sicuramente ci saranno state le giuste motivazioni per brindare in onore della speleologia, delle grotte e dei compagni (magari proprio noi già da ore all’interno della cavità), ma i risultati finali hanno dimostrato ampiamente come alcol ed attività speleologica di un certo livello non siano compatibili in nessun modo tra loro.
La seconda convinzione è quella che anche una squadra ridotta a due persone, se motivata ed affiatata, può fare un grandissimo lavoro esplorativo e penso che il sottoscritto e l’amico Libero l’abbiano ampiamente dimostrato nel corso di quella uscita.

Etichette:

 
posted by Paolo at 20:33 | 0 comments
domenica 19 agosto 2007

H
o già raccontato di risalite su ghiaccio fatte con piccozze e ramponi, perciò potete immaginare cosa è successo quando è giunta in sede della SAS la notizia che, a causa del prolungato freddo, la cascata della val Rosandra si era completamente ghiacciata.

Il giorno dopo, Walter Cesaratto ed io, ci siamo subito organizzati e siamo partiti. Giunti sul posto, abbiamo scoperto che tutta la cascata risultava completamente ghiacciata, ma non era così per il sottostante laghetto: non era quindi possibile attaccare la colata dal basso. Abbiamo quindi optato per fissare una corda alla sua sommità, calarci il più possibile e quindi risalire. Intanto devo dire che a metà della cascata siamo potuti entrare in uno stretto pertugio che conduceva ad un’incredibile stanzetta creata fra la struttura cristallina e la roccia, tutta adorna di stalattiti e stalagmiti di ghiaccio. A questo punto, discesi ancora per qualche metro, abbiamo iniziato la risalita. Non è stata un’ascesa particolarmente elegante e la corda fissa ha permesso divagazioni stilistiche forse improponibili in altre circostanze. Comunque, lentamente, siamo saliti metro dopo metro fino a raggiungere la sommità del salto. Siamo usciti che oramai era il tramonto, circondati da un mondo cristallino che si tingeva di rosso, per perdersi ben presto nel buio della notte.
Non so quante persone hanno avuto la possibilità di vivere la nostra esperienza, ma ancora oggi, quando scendo in val Rosandra e giungo al cospetto della cascata, penso a quella piccola avventura ed all’effimero mondo di ghiaccio che abbiamo scalato, piccolo universo trasparente che, qualche giorno dopo, si è definitivamente sciolto scomparendo per sempre.

L’immagine ritrae l’amico Walter in azione, durante la risalita della cascata (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 09:42 | 0 comments
sabato 18 agosto 2007

Non sono mai stato un frequentatore assiduo di grandi verticali. Certo, nella mia carriera speleologica, ho disceso vari pozzi di una certa profondità, come il - 100 dell’Abisso Carlo Debeljak, il - 102 dell’Abisso Silvano Zulla, il - 118 dell’Abisso della Volpe, oppure il - 120 dell’Abisso del Diavolo o il - 155 della Fovea Maledetta.

Non ho partecipato, purtroppo, all’uscita in Sardegna per la discesa della SAS alla voragine del Golgo (Su Isterru, pozzo unico di 270 m), ma devo dire che in quel periodo, affrontare una grande verticale non comportava particolari difficoltà psicologiche.
Nonostante questo, quando mi è stata proposta la visita a quella che allora (1981) rappresentava la verticale esterna più profonda del mondo (Provatina, Grecia, 408 m di pozzo unico), ho avuto i miei piccoli dubbi. Non ero particolarmente allenato, il viaggio era lungo ed i miei compagni erano tutti forti speleologi. Cosa fare? L’unica cosa era gettare il cuore oltre l’ostacolo e buttarsi anche in questa avventura.
La spedizione era composta da: Daniela Michelini (Penel) e Ferrucio Giannini per la Commissione Grotte E. Boegan della SAG, Paolo Pezzolato (Fox), Marino Petronio ed il sottoscritto per l’Adriatica. Dopo una breve preparazione dei materiali, partenza verso la Grecia, con attraversamento in macchina dell’allora Yugoslavia. Il viaggio è stato lungo e complicato, ma alla fine siamo arrivati nel Pindo. Tralascio di descrivere i giri nelle varie cittadine, il campeggio abusivo dal quale siamo stati allontanati dalla Polizia e la sosta nel campeggio organizzato nel quale, unici clienti, siamo stati svegliati e riscaldati dall’ospitale gestore a forza di bicchieri di Ouzo e Metaxa. Finalmente siamo giunti a Papingo, punto di partenza per la salita verso l’altipiano di Astraka. Dopo un po’ di buon cibo ed una salutare dormita, abbiamo noleggiato un asinello per il trasporto dei sacchi e siamo partiti. La prima perplessità è nata quando il gestore della locanda - salutandoci - ci ha chiesto: “Avete portato la dinamite …?”. Pensando ad un errore di traduzione (ci capivamo a motti ed utilizzando un po’ di italiano, qualcosa di inglese ed un pizzico di greco), abbiamo relegato la cosa a semplice curiosità, ma in seguito avremmo ben capito a cosa si riferiva. Varie ore dopo, lasciato l’asino e caricati i sacchi in spalla, è iniziata la penosa ricerca della cavità: si doveva trattare di un ampio pozzo a cielo aperto facilmente identificabile, eppure abbiamo vagato per ore senza alcun risultato. Abbiamo raggiunto anche la punta più alta dell’intero altopiano, il Gamila Peak (2.497 m), ma senza rintracciare la grotta. Non rimaneva quindi che piantare le tende e rimandare al giorno seguente le ricerche.
Con il nuovo sorgere del sole, abbiamo ripreso a vagare per l’altopiano, scendendo inutilmente qualche sprofondamento, ma solamente nel pomeriggio abbiamo trovato la Provatina e risolto il mistero: la cavità non si apre sulla sommità del pianoro, ma sulla parete di una ripida gola che scende verso valle. A questo punto abbiamo avuto la seconda sorpresa: l’ingresso era quasi completamente occluso da un ingente accumulo di neve ghiacciata, affacciato a sbalzo sulla verticale. Siccome lo spazio per passare era più che sufficiente, la squadra di armo si è preparata ed ha iniziato ad attrezzare la discesa. Passata qualche ora, finalmente Fox e Penel sono usciti, imprecando in maniera vistosa. Era accaduto qualcosa che nessuno aveva previsto: la massa di neve esterna, a causa del caldo, si stava sciogliendo progressivamente, liberando lungo il pozzo - quasi sulla traiettoria della corda - dei blocchi di ghiaccio, anche di grandi delle dimensioni. Insomma, tutta la prima parte dell’ampio pozzo era interessata dalla caduta di questi blocchi di neve che, dopo un volo libero di duecento metri, si schiantavano su un ampio terrazzo inclinato. Dopo aver armato la prima parte della verticale, i compagni si erano arrestati in corrispondenza di un punto più stretto, dove si convogliava tutti il ghiaccio che precipitava nel pozzo. Cosa fare? Certo sarebbe stato ideale far crollare definitivamente tutto il nevaio e così ci è venuto in mente l’accenno alla dinamite: le spedizioni che ci avevano preceduto, operando nello stesso periodo dell’anno, avevano usato l’esplosivo per liberare da ogni pericolo la discesa nella grotta. Ma noi non eravamo attrezzati in tal senso e dovevamo quindi trovare qualche altra soluzione. L’unica idea che ci è venuta in mente è stata quella legata alla temperatura: di notte faceva decisamente più freddo e quindi c’erano minori probabilità di distacchi di neve. Era un’ipotesi, ma si poteva tentare.

(Continua)

Nelle immagini si possono vedere l’asinello che ci ha aiutato a trasportare i sacchi nella prima parte dell’avvicinamento ed il campo installato sull’altipiano di Astraka (Foto Guglia)

Etichette:

 
posted by Paolo at 09:31 | 0 comments
lunedì 13 agosto 2007

Oggi può sembrare normale, ma agli inizi degli anni ’80 parlare di arrampicata su ghiaccio era strano e rivoluzionario. Sulle riviste specializzate si potevano vedere i primi articoli che descrivevano incredibili ascensioni su pareti ghiacciate e le punte delle piccozze cominciavano allora ad assumere delle curiose ed accentuate curvature. Iniziò a farsi strada il termine piolet traction e comparvero le foto dei primi coraggiosi che osavano affrontare la salita di qualche cascata ghiacciata locale. I giovani dell’ambiente speleo/montanaro non se lo fecero ripetere due volte ed iniziò subito la sperimentazione delle nuove tecniche. Anch’io, con alcuni amici, ho provato a salire sul ghiaccio, dotandomi di piccozza, di martello/piccozza e di adeguati ramponi. Devo dire che tutta la tecnica mi è sembrata sempre un po’ troppo aleatoria. In roccia, se pianti un chiodo nella maniera giusta, puoi contare su un punto fisso e ben saldo. Sul ghiaccio, non solo il chiodo che pianti ma tutta la struttura ghiacciata su cui ti muovi sembra in precario equilibrio. L’acqua, che ha generato la colata, continua a scorrere e non puoi sapere con certezza quanto il collegamento fra roccia e ghiaccio sia sicuro o meno. Dipende tutto dalla temperatura e talvolta è successo che intere cascate, con relative colonne e drappeggi cristallini, siano precipitate perché non più saldamente fissate alla parete retrostante. Noi non abbiamo salito cascate estreme o difficili, ma abbiamo provato, in più occasioni, a cimentarci su percorsi di media difficoltà. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di canaloni ghiacciati, dove potevi trovare anche della salda roccia sulla quale ricavare un sicuro posto di sosta. Molto spesso siamo andati della vicina Slovenia, dove - specialmente nelle gole che circondano la città di Idria - abbiamo trovato spettacolari colate di ghiaccio. Durante queste uscite ho arrampicato con il maestro Aldo Fedel e spesso sono stato accompagnato dall’amico Fabio Vatore.
Al di la del piacere immediato ricavabile dalla salita di queste fantastiche strutture semitrasparenti, questa attività è risultata un buon allenamento nell’uso dei materiali, in previsione di ben più severe ascensioni in alta montagna.


N
elle immagini si può vedere il sottoscritto in azione (la barba era ancora nera) e l’amico Aldo Fedel in risalita su una cascata ghiacciata nei pressi di Idria (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 18:26 | 0 comments
domenica 5 agosto 2007

L’occasione di pubblicare un’altra immagine riguardante la visita fatta domenica scorsa nella miniera del rio dal Fous, mi permette di riportare qualche nuovo dato su quest’opera mineraria decisamente interessante. Durante la nostra visita siamo entrati per prima cosa nella galleria Bauer, lunga un centinaio di metri, posta alla quota di 711 m slm sulla sponda sinistra del torrente Fous. Questa galleria, abbastanza recente, dovrebbe risalire all’anno 1872 (come indicato dalla lapide posta sopra il suo ingresso), ma probabilmente si sovrappone a qualche assaggio di epoca precedente. Dalla galleria Bauer siamo scesi, tramite un pozzetto profondo 11 m, nella galleria Costanza, scavo "di ribasso" completato nell’anno 1877. Sono segnalate anche altre gallerie "di ribasso" sulla riva destra del torrente, come quelle denominate Concordia e Bozzo, ed è probabile che il cunicolo che abbiamo visitato, lungo 50 m, sia una di queste. La miniera alta, invece, è posta alla quota di 800 m slm, ed è stata scavata a partire dal 1925. Essa risulta abbastanza estesa e, nel 1951, si è sviluppata dal versante destro a quello sinistro della stretta forra scavata dal torrente. Lo sfruttamento dell’opera mineraria si è definitivamente concluso nell’anno 1953.

Nell’immagine si può vedere un controluce relativo alle grandi sale comunicanti con l’esterno, presenti nella miniera alta (Foto Guglia)

Etichette:

 
posted by Paolo at 11:55 | 0 comments

Concluderò questa specie di trilogia parlando, dopo aver trattato dei vecchi amici e degli amici di sempre, di quelli di nuova acquisizione (si tratta di un argomento che interesserà poco il grande pubblico, ma che forse incuriosirà i diretti interessati). Dopo un periodo di limitata frequentazione della sede, sono recentemente ritornato ad una più assidua presenza nella vita sociale della SAS. Ho avuto così occasione di conoscere meglio i nuovi soci che, in precedenza, avevo frequentato solo marginalmente.
Ho scoperto che, nonostante un certo numero di anni ci divida, se si parla di speleologia lo spirito è esattamente lo stesso. Certo, nel mio caso il tutto è filtrato da trent’anni di esperienze e di batoste (dalle quali si impara sempre qualcosa), mentre nel loro caso emergono le stesse idee e l’identico spirito indomito che mi animava quando, ancora giovanotto, ho iniziato l’attività in grotta. Penso, comunque, che certe cose bisogna provarle di persona, certi sbagli bisogna scontarli sulla propria pelle e solo dopo ti sembra tutto chiaro. Se invece te lo dice un altro, non si ha lo stesso risultato: l’esperienza bisogna guadagnarsela direttamente e senza intermediari.
Ho avuto così l’occasione di apprezzare Marco e Piero, la cui costanza negli scavi mi ha veramente colpito: una rigida programmazione dei lavori, accompagnata da una tecnica lenta ma inesorabile. Marco è un personaggio che considero geniale, e come tutti i geni alterna momenti di illuminata saggezza (tanti) ad altri di disorientante comportamento (per fortuna pochi). Piero è invece indice di affidabilità: gran lavoratore, brontola spesso su tutto, ma è sempre presente quando è il momento. Auguro a loro di raggiungere, prima possibile, il grande risultato che si stanno costruendo, uscita dopo uscita, oramai da vari anni.
Poi ci sono tutti gli altri, ognuno specializzato in qualche settore specifico della speleologia. C’è chi si diletta in risalite, chi cerca nuovi buchi e chi preferisce rivedere quelli vecchi. Nel complesso un bel gruppo di speleo, come ad esempio Roberto, Tiger,Rocco, Sid, Martin ed altri.
Un posto particolare viene coperto da Marco G. (Gubi), nel quale mi rivedo da giovane: capacità tecnica, ma anche serietà, attenzione e una grande sensibilità. Originale, poi, la figura di Cristian, talvolta leggermente inaffidabile, ma sempre pieno di entusiasmo, dinamico e frizzante (come gli spritz-aperol che mi ha fatto conoscere). Infine la componente femminile: Alessandra, Francesca e Valeria, pazienti nei confronti dei maschietti, ma sempre pronte a condividerne i progetti. Per quanto riguarda la Fantastica Valeria, avrei voluto conoscerla 25 anni fa … (ovviamente, lei con la stessa età di oggi, perché nel 1982 non era ancora nata).
In conclusione, un giovane gruppetto di soci che sicuramente, secondo la mia diretta esperienza, non ha nulla da invidiare alle varie compagini che si sono succedute nel tempo e che ho conosciuto nella mia pluriennale frequentazione della SAS.
Un gruppo che, se opportunamente motivato, potrà fare grandi cose nell’ambito della speleologia regionale.

Etichette:

 
posted by Paolo at 10:41 | 0 comments
sabato 4 agosto 2007

Parlare di montagna in inverno, significa necessariamente anche parlare di sci. Ovviamente, nella maggior parte dei casi, si tratta di sci praticato in pista, ma - se sei abbastanza bravo - può trattarsi anche di sci-alpinismo. Io devo riconoscere che non sono mai stato un grande sciatore e che la mia tecnica ha lasciato spesso a desiderare, ma comunque ho affrontato, in compagnia di amici, anche svariate escursioni fuori pista. Ho salito montagne nelle vicine Alpi Giulie, ma ho anche seguito interessanti percorsi nelle Dolomiti.
Alcune belle escursioni le ho fatte, poi, nei dintorni del Rifugio Roma, nelle Vedrette di Ries. Ricordo una risalita al monte Nevoso ed una eroica ascesa al monte Magro. In quell’occasione il tempo non era dei migliori, c’era vento, nebbia e molto freddo. La salita, da affrontare con le pelli di foca, era alquanto ripida e, a causa del biancore della nebbia che si rifletteva sulla neve, non era possibile capire dove finisse la montagna e dove cominciassero le nubi basse. Con un po’ di fatica siamo arrivati sulla cima, dove una croce incrostata di ghiaccio segnava il punto più alto (3.273 m). La discesa ha permesso, fatto un dislivello di un centinaio di metri, di uscire dalla nebbia e di poter spaziare con la vista. Dopo una serie di ampie serpentine in una specie di anfiteatro, è stato possibile scendere in direzione del rifugio. Ricordo che la neve non era delle migliori, con continui sprofondamenti degli sci che sfondavano la crosta di neve ghiacciata. Non sono caduto, ma non mi stavo certo divertendo. Giunto oramai in vista del rifugio, nei pressi di un vecchio rudere, ho così deciso di togliermi gli sci e di fare a piedi quelle poche centinaia di metri che ci dividevano dalla nostra meta. Sganciati gli sci e fissati gli stessi allo zaino, sono partito in direzione del rifugio. Fatti pochi passi, ho avuto una spiacevole sorpresa: in prossimità del rudere la neve era ben ghiacciata e sosteneva tranquillamente il mio peso. Ad ogni passo che facevo allontanandomi, però, la tenuta diminuiva e sprofondavo sempre più in profondità. Ad una decina di metri ero già con la neve a mezza gamba, a venti metri ero immerso nella bianca coltre fino alla vita. Sono quindi ritornato mestamente al rudere, mi sono rimesso gli sci e, nonostante la difficoltà ed i relativi brontolamenti, sono sceso fino al rifugio Roma, dove mi aspettavano gli amici.
A parte qualche eccezione, devo dire che ho sempre apprezzato di più la salita con le pelli di foca, rispetto alla discesa con gli sci. Per questo motivo sono sempre stato deriso da tutti quelli (quasi tutti) che sciavano meglio di me e si godevano alla grande le meritate discese dopo la fatica della salita.

Nell’immagine si possono vedere Fabio e Francesco presso la cima del monte Magro (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 20:23 | 0 comments