giovedì 20 marzo 2008
Finalmente è stato tutto organizzato: permessi, scavo della botola, sua apertura e visita alle gallerie superiori (n. CA 2 FVG-TS) dell’acquedotto Terresiano.
Era da un po’ di tempo che non avevamo l’occasione di entrare in questi cunicoli. Personalmente sono sceso una priva volta nel 1986, una seconda nel 1989 e da allora solamente in un’altra occasione qualcuno ha avuto il permesso per accedere a questi passaggi ipogei. Domenica scorsa, invece, grazie all’interessamento dei ragazzi dell’associazione “Il Capofonte” che da anni si battono per la difesa e la valorizzazione dell’intera zona verde dove si apre questa cavità artificiale, abbiamo avuto la possibilità di ripetere l’esplorazione. Devo dire che abbiamo avuto anche abbastanza fortuna perché, in superficie, non era più visibile alcun segno: dopo uno scavo di soli 30 cm abbiamo però intercettato la botola e, una volta aperta, siamo scesi. Eravamo io, Piero, Cristian ed Elisa, (che io chiamo sempre Sara). Le gallerie superiori dell’acquedotto Teresiano, pur prive di rivestimento, si sono dimostrate abbastanza ben conservate, e senza particolari inquinamenti. Ovviamente, ora sarà possibile avviare una campagna di studi che porteranno ad un nuovo e completo rilevamento della cavità (la precedente planimetria, fatta in tempi estremamente limitati, non ha mai dato le dovute garanzie di precisione) e ad un’indagine sul particolare “pavimento attrezzato” realizzato in cotto, dove scorrono le canalette per il trasporto dell’acqua.
A presto nuovi particolari su questa interessante galleria settecentesca. (Foto Guglia)

Etichette:

 
posted by Paolo at 22:05 | 0 comments
lunedì 17 marzo 2008
Fra le mie esperienze speleologiche e di montagna, vi sono anche alcune situazioni che considero perlomeno “insolite”. Niente di particolare, fatti in molti casi spiegabili e spesso completamente chiariti, ma dei quali porto un particolare ricordo. Si tratta di piccole storie che, un po’ di tempo fa, raccontavo spesso a mia figlia ed alle sue amichette, che mi ascoltavano con gli occhioni spalancati ed in assoluto silenzio.
Uno di questi racconti - forse quello più richiesto - riguardava un avvenimento in verità abbastanza banale, ma che, sul momento, mi ha riservato qualche emozione. Io ed il mio amico Aldo Fedel stavamo da tempo organizzando delle uscite per risalire la “direttissima nord” della Presanella. Abbiamo fatto alcuni tentativi prima di riuscirci, in quanto abbiamo avuto svariati problemi causati dal maltempo e da impedimenti vari. Ricordo che in un’occasione - eravamo solamente io ed Aldo - siamo partiti da Trieste e siamo saliti verso il rifugio Denza, posto lungo i pendii est del ghiacciaio della Presanella. Dopo una lunga camminata siamo finalmente arrivati all’edificio, mentre stava quasi facendo buio. Probabilmente il rifugio era stato appena riaperto dopo la stagione invernale, perché eravamo soltanto noi due ed i gestori: una simpatica signora che faceva la cuoca e suo figlio. Vista la situazione, siamo stati subito invitati in cucina, con un’accoglienza cordiale ed un clima famigliare. Ricordo che c’erano però dei problemi al generatore di corrente, perché mancava l’energia elettrica e la stanza dove stavamo per cenare era illuminata solamente da alcune candele. L’atmosfera era serena e distesa, quasi romantica vista la luce calda delle fiammelle. Ricordo che guardavo spesso all’esterno attraverso una finestra, dalla quale ho potuto vedere gli ultimi raggi del sole che lasciavano posto alla più completa oscurità. E’ stato in quel preciso momento che, proprio da quella finestra, ho visto un’immagine che mi ha raggelato il sangue. Nel buio della notte, una sagoma si stagliava sul biancore della neve. Vicinissima al vetro, appariva una figura - che un attimo prima non c’era - che osservava l’interno del rifugio. Non capivo bene, ma potevo distinguere il profilo di una persona, con una specie di cappuccio sulla testa, che rimaneva perfettamente immobile. Sarà stata la suggestione, o i racconti che da sempre si rincorrono a riguardo dei territori dove si sono combattute delle battaglie (e l’area della Presanella si è trovata quasi sul fronte della Prima Guerra Mondiale), ma quell’immagine di un essere incappucciato che mi stava fissando, mi ha fatto molta impressione. Sembrava quasi che nel buio di quel viso si potesse intravedere lo scintillio degli occhi, che riflettevano la luce delle candele che illuminavano debolmente la stanza. Non so se gli altri hanno capito cosa stava succedendo ma, forse seguendo proprio il mio sguardo, tutti si sono voltati verso la finestra. Ed è a questo punto che il mistero del “monaco incappucciato” (è questa la prima immagine che mi è venuta in mente) ha trovato la sua logica spiegazione. La tetra figura appena al di la del vetro si è infatti mossa, inclinando la testa. Con questo movimento è scomparsa l’impressione del cappuccio ed anzi, osservando bene, è stato possibile riconoscere il profilo di due piccole orecchie rotonde. Quasi subito i due gestori hanno sorriso e la figura si è rivelata per quello che veramente era: una marmotta più curiosa delle altre che spesso faceva visita al rifugio per osservare i movimenti dei suoi strani abitanti.
Questa esperienza mi ha insegnato a non fermarmi alla prima impressione e che, prima di avere paura di qualcosa (e confesso che ci sono delle cose che mi fanno veramente paura…), è sempre meglio verificare esattamente cosa abbiamo davanti.
Quello che vi ho appena descritto è stato un piccolo avvenimento di tanti anni fa, che però ha avuto sempre il massimo successo quando raccontato ai bambini, magari davanti al fuoco di un bel camino ed esagerando un po’ con l’ambientazione inquietante e misteriosa. Ancora oggi, incontro qualche amica di mia figlia che, sorridendo, mi chiede se posso raccontare per un’ultima volta la storia del “monaco incappucciato”…
Da parte mia sono sempre disponibile.
(Foto Guglia)

Etichette:

 
posted by Paolo at 21:59 | 0 comments
martedì 11 marzo 2008
Chiedo scusa e lo faccio perché mi sto rimangiando le mie stesse parole. Avevo dichiarato che tutti i post pubblicati su questo blog sarebbero stati legati alle grotte, alle cavità, al sottosuolo. Avevo promesso che avrei cercato di attenermi il più possibile a questa regola, ma non ho resistito all’impulso che mi ha fatto rinnegare quanto affermato fino ad ora. Ebbene sì, oggi farò una grave eccezione. Di seguito troverete un racconto che non è collegato in alcun modo alla speleologia ed alle relative discipline. Si tratta di tutto altro, di un tema e di un’ambientazione completamente diversa.
Chi mi conosce sa quali sono i miei hobby preferiti: grotta, cavità, montagna e molto altro. Ma chi mi frequenta più da vicino conosce anche tutti i miei altri interessi: amo guardare e discutere di film, amo leggere e discutere di libri, mi interesso di tutto quanto riguarda i temi scientifici, naturalistici e storici. C’è però anche un’altra piccola perversione che mi contraddistingue: una passione sfrenata per la fantascienza, che spazia dai libri del “periodo d’oro” degli inizi del ‘900 a quelli degli autori più attuali e conosciuti, che parte dalla filmografia anni ’50 e ’60 in bianco e nero, fino alle ultime produzioni dai ricchi effetti speciali. Avendo la malsana passione di scrivere su tutto, ho anche prodotto qualche pagina di tema fantascientifico/fantastico. Per questa eccezione tematica propongo quindi un breve racconto risalente a qualche anno fa, dalle atmosfere buie e pessimistiche (chissà perché ci casco sempre…). L’argomento non è certo originale, ma il risultato finale non mi dispiace.


La strada è umida e posso vedere specchiate sull'asfalto le sagome degli edifici che mi sovrastano, debolmente illuminati dalla luna.
Silenzio. Mi sarei aspettato il silenzio in quest'occasione, ma non è così. Imposte sbattono alle folate di vento, fogli di giornale frusciano negli angoli più bui ed un lugubre lamento, quasi animale, percorre i vicoli deserti.
Si è concluso tutto in brevissimo tempo, pochi giorni per capire cosa stava succedendo e per comprendere che non si poteva fare più nulla. Pochi giorni per accettare e per morire. Un attimo per interrompere tutto ciò che c'era stato, che c'era e che non sarebbe più ritornato.
Non si è mai saputa l'origine del contagio, chi aveva sbagliato, chi forse aveva agito animato da malsane intenzioni, chi forse era stato travolto da qualcosa di troppo grande che gli era esplosa tra le mani... Giocare con la vita e con la morte è qualcosa di molto intenso, una sensazione di potere e di dominio. Qualcosa che ti fa sembrare Dio, qualcosa che puoi dominare o che ti può schiacciare, qualcosa che può finire anche molto male …
Si dice che sia partito dal Pakistan, o comunque da quelle parti. Penso che questo non abbia mai avuto importanza e forse è tutto falso, un ultimo tentativo per rimescolare le carte … Le prime regioni interessate furono l'India e la Cina, per poi ritornare ad ovest con la Russia e quindi l'Europa. Milioni di persone con un leggero stato febbrile, poi un rapido peggioramento, il collasso e la morte. Un virus mutato, forse inizialmente una semplice influenza, poi un letale attacco senza cura.
A chi moriva, alcuni giorni dopo il contagio, non interessava sapere se il virus fosse partito da un laboratorio dell'estremo oriente o da una cantina palestinese, da un ambiente attrezzato ed asettico di qualche agenzia governativa americana o dalle mani tremanti di un improvvisato biologo intriso di vendetta.
L'unica cosa che contava è che non si poteva fuggire in nessun modo. Ci si ammalava e si moriva. Tutti si ammalavano e morivano, anche gli animali.
Non so perché io sono stato risparmiato, non c'è una spiegazione logica. Tutti attorno a me, in pochi giorni, se ne sono andati. I miei cari, gli amici, gli altri …
All'inizio avrei voluto morire anch'io, impazzito dalla solitudine ed impietrito dal dolore, incredulo e quasi contrariato d'essere ancora in vita. Poi, con il tempo, mi sono dato un obiettivo, un fine. Se io ero sopravvissuto, forse c'era la possibilità che anche qualche altro sia rimasto vivo, sia scampato all'epidemia. Forse da qualche parte c'era qualcuno che vagava per le città deserte in cerca di qualche suo simile. E sono partito. Prima utilizzando qualche automobile trovata lungo la strada con un po' di benzina nel serbatoio, poi a piedi. Certo, per il momento, posso godere ancora di qualche comodità, interi magazzini pieni di merce e di attrezzature sono a mia disposizione, ma non mi trovo molto a mio agio nei centri abitati, forse per l'odore pesante che ancora pervade le vie. Alla sera cerco di andare via, di accamparmi alla periferia, fra gli alberi ed i cespugli, lontano dalle case malate ed insane.
Questa sera, però, dall'alto del colle dove ero in procinto di passare la notte, ho visto il falò. Un bel fuoco, acceso improvvisamente nel mezzo della piazza del paese che sovrastavo e di cui non sapevo neppure il nome. Alla vista di quella luce mi sono subito messo a correre, sperando nella presenza di qualche superstite. Chi poteva aver acceso quel fuoco, chi si scaldava al calore di quel falò, chi avrei trovato in quella piazza?
Non ci ho messo molto tempo, per scendere dalla collina. Dieci minuti, non di più, e mi sono trovato nell'ampio slargo, con il cuore in gola e lo sguardo a cercare qualche figura amica fra i chiaroscuri prodotti dalle fiamme vigorose.
Poi la delusione. Non si è trattato di un fuoco acceso da mano umana, ma della perdita di gas di una tubazione corrosa che ha incontrato una scintilla accidentale, forse lo sfregamento di due rottami metallici, o l'ultimo guizzo di un cavo elettrico oramai quasi privo di alimentazione. Non si è trattato di un fuoco innescato da mano umana, ma di un evento fortuito, un fatto imprevedibile legato oramai al solo volere della natura e del destino, una circostanza casuale che non contempla più la presenza dell'uomo.
Lasciata alle spalle la piazza con i suoi bagliori, percorro la strada umida, debolmente illuminata dalla luna. Silenzio. Per un attimo il vento si è placato e posso finalmente sentire il suono leggero dei miei passi. Sono solo, ma non ho perso completamente la fiducia. Non mi rimane che proseguire, visitare le città, attraversare i paesi, alla ricerca di chi può essere sopravvissuto come me. Non so quanto tempo ci vorrà, mesi o anni, ma è l'unica cosa che mi è rimasta.
Sono vivo solamente perché alla continua ricerca di chi forse è rimasto vivo. Rimarrò vivo finché continuerà la mia ricerca. Quando avrò raggiunto un altro superstite potrò finalmente morire… e forse allora non mi dispiacerà nemmeno.
Per il momento cammino, cammino e cammino, visito le città ed attraverso i paesi...
Mi trascino nell'ansante ricerca di chi probabilmente non c'è più, seguendo un ultimo desiderio a cui far aggrappare la mia disperata ed oramai stanca voglia di vivere.

(da un sogno, 20.9.2004)

Etichette:

 
posted by Paolo at 22:41 | 0 comments
domenica 9 marzo 2008
Quando ero giovane, alla speleologia si abbinava sempre anche l’attività in montagna e come progrediva la nostra esperienza nell’arrampicata, merito delle frequenti visite alle palestre locali, aumentava anche la voglia di affrontare qualche parete di una certa difficoltà. In montagna ho percorso, infatti, numerose vie, anche difficili, sia in compagnia di soci della SAS, sia con altri amici che condividevano la mia stessa passione.
Un’esperienza di una certa intensità, che ricordo ancora per tutta una serie di particolari, è stata quella relativa alla salita dello spigolo Nord della Cima Alta di Riobianco.
Devo precisare che si tratta di una via semplice, con difficoltà che non superano il quarto grado superiore, che volevamo fare per allenamento e per puro piacere. Siamo partiti in quattro da Trieste e, mentre Grazia e Patrizia ci hanno aspettato alla base, io e Walter Cesaratto abbiamo iniziato a risalire la via a comando alternato. Sui primi tiri di corda niente da segnalare: una via classica, in un ambiente severo e spettacolare, ma priva di grandi difficoltà tecniche. Ad un certo punto, però, sono intervenuti alcuni problemi. Per prima cosa ha iniziato a piovigginare e poi, a causa della nostra poca attenzione, siamo usciti completamente dalla via che avevamo programmato di seguire. Si trattava quindi raggiungere la cima (mancava solamente l’ultimo tiro di corda), arrampicando sotto la pioggia ed improvvisando il percorso. Ovviamente non c’era alcun chiodo di sicurezza e, procedendo a comando alternato, l’ultimo tiro è toccato a me.
Certo ero allenato, ma le condizioni non erano sicuramente quelle ideali. Più salivo, più mi preoccupavo. La roccia bagnata non era delle migliori, non c’erano fessure per piantare chiodi o posizionare nut, e le difficoltà da superare non erano proprio banali. Giunto ad una specie di tettuccio aggettante ho cercato di piazzare un chiodo, ma con deludenti risultati. Bisognava, però, uscire in qualche modo da quella situazione, visto che il tempo stava peggiorando ulteriormente. Ho quindi superato di slancio quel piccolo strapiombo e mi sono ritrovato sulla cima. Ho fatto sicura a Walter e, alla fine, ci siamo dati la mano nei pressi dell’ometto di pietre che segnalava la vetta.
Oggi penso con qualche brivido a quella risalita ed in particolar modo all’ultimo passaggio. In pratica si è trattato di 30 m senza alcuna sicura (il chiodo non avrebbe sicuramente tenuto), su roccia infida e bagnata. Tutto è andato per il meglio, ma poteva anche finire male.
In quel periodo Walter Cesaratto era sicuramente più allenato e bravo di me, e mi piacerebbe sentire i suoi ricordi su questa comune ascensione. Forse, con il passare del tempo, qualcosa nella mia mente ha esagerato la realtà dei fatti, ma quegli ultimi metri di quell’ultimo tiro di corda, li ricordo ancora oggi con una certa apprensione.

Etichette:

 
posted by Paolo at 21:00 | 2 comments
venerdì 7 marzo 2008
Recentemente, ho avuto l’occasione di rivedere una vecchia fotografia che mi ritrae nei bassi passaggio presenti all’interno della Fossa di Noglar (n. 243 FR), cavità che si apre nei pressi di Pradis, nelle Prealpi Carniche.
Devo dire che questa immagine mi ha fatto ritornare alla mente alcune situazioni che aveva cancellato. Pensare alla Fossa di Noglar, fino a poco tempo fa, mi avrebbe fatto rammentare - ad esempio - la gioia del collegamento fra questa grotta e la vicina La Val (n. 340 FR), bella impresa dell’Adriatica ottenuta nell’anno 1980. Avrei pensato poi alle giornate passate nei rami terminali assieme a Libero Degrassi, l’amico con il quale ho condiviso il piacere dell’esplorazione di alcune prosecuzioni che probabilmente, da allora, non sono state più percorse da altri.
La foto in questione, invece, mi ha fatto ritornare alla mente le molte centinaia di metri di bassi passaggi (i cosiddetti “bigoli”)che caratterizzano questa cavità. Sceso il pozzo iniziale di 45 m, infatti, è necessario infilarsi in una serie di cunicoli larghi anche qualche metro, ma alti nella parte centrale non più di 50 cm, che bisogna seguire per raggiungere le grandi caverne terminali. Ma questo non basta. In molti casi il fondo è formato da pietre arrotondate, anche di una certa dimensione, che ostacolano la progressione e, in alcuni punti, un torrentello d’acqua riesce a bagnarti per benino. Vi sono, inoltre, alcune strettoie che, per completare la situazione, ti obbligano a contorsioni ed acrobazie.
Questi passaggi devono essere percorsi con un sacco attaccato in cintura, che devi trascinare cercando di disincagliarlo ogni qual volta (molto spesso) questo si incastra su qualche spuntone di roccia. Per le persone particolarmente sensibili, infine, c’era la stretta vicinanza con alcuni particolari abitatori della grotta: il soffitto e le varie nicchie presenti sono spesso tappezzate (almeno nella parte vicino all’entrata) da decine - se non centinaia - di cavallette cavernicole (Troglophilus neglectus) che, pur essendo totalmente innocue, fanno una certa impressione se viste da così breve distanza.
Si tratta, per quanto sopra riportato, di una cavità da evitare? Oggi sicuramente non proverei nemmeno ad affrontare una sua esplorazione, sia per la mancanza di allenamento sia per le dimensioni (le mie) leggermente aumentate rispetto allora. Devo dire, però, che in quegli anni mi sembrava una grotta bella ed intrigante, per veri uomini, una palestra che poteva dimostrare le tue vere capacità, un terreno di gioco sul quale metterti alla prova… Quando hai meno di vent’anni, guardi le cose da una prospettiva diversa, che poi lentamente, ma inevitabilmente, devi modificare.

L’immagine mi vede all’uscita di un cunicolo, in corrispondenza di una piccola cavernetta (Foto SAS).

Etichette:

 
posted by Paolo at 18:23 | 0 comments
domenica 2 marzo 2008
Dicono che in grotta sia possibile osservare - dalle nostre parti - solamente animaletti di piccola taglia e, normalmente, questo è vero. E’ possibile contemplare qualche gamberetto, qualche ragno, qualche cavalletta, ma l’incontro con animali più grandi si limita al proteo (che un paio di volte ho avuto la fortuna di vedere in gran numero nei rami interni della grotta di Postummia). In qualche occasione, infine, è possibile trovarsi di fronte qualche pipistrello, ma i potenziali incontri si limitano a questi.
Analizzando la mia carriera speleologica, però, posso trovare - a proposito di questo argomento - un episodio alquanto singolare.
Qualche anno fa ero in Umbria, in compagnia del mio amico Roberto Nini. Stavamo visitando un ramo sotterraneo dell’acquedotto romano detto "Formina", costruito dal curator aquarum Marco Cocceio Nerva tra il 24 ed il 33 d.C, sotto l'impero di Tiberio.
Dopo essere entrati attraverso un pozzetto profondo qualche metro, abbiamo iniziato a discendere lungo lo speco, che - devo ammettere - si presentava ai miei occhi con una morfologia estremamente suggestiva ed interessante. Eravamo io e Roberto davanti e, qualche decina di metri dietro di noi, altri tre ragazzi del posto. Chiacchierando e parlando di esplorazioni, abbiamo percorso un bel tratto di acquedotto, soffermandoci su alcune iscrizioni incise sulle pareti a testimonianza di vari restauri effettuati nel 17° secolo.
Ad un certo punto, ci siamo fermati, in quanto quel tratto di acquedotto terminava in corrispondenza di un’ostruzione che impediva la progressione, pur garantendo il deflusso dell’acqua. Eravamo in attesa degli altri in una specie di piccola saletta, da cui si dipartiva un basso passaggio che conduceva, dopo qualche metro, alla frana vera e propria. E’ stato proprio in quel particolare momento che è avvenuto il fatto strano. Dal basso passaggio abbiamo iniziato ad udire dei strani rumori, come dei soffi e dei sibili. Ci siamo quindi concentrati per capire cosa stesse succedendo ed abbiamo così potuto vedere delle onde d’acqua uscire dal cunicolo per arrivare fino a noi. La cosa era quasi inspiegabile, in quanto queste onde si propagavano controcorrente. A questo punto si è fatto distintamente sentire anche un forte rumore in rapido avvicinamento (sempre proveniente dall’angusto passaggio) che, sul momento, mi è sembrato come il galoppo di un animale lanciato a piena velocità.
Io ho guardato negli occhi Roberto, lui ha guardato me, e poi abbiamo fatto l’unica cosa che ci è venuta in mente in quel frangente: abbiamo iniziato una rapida corsa a ritroso lungo la galleria dell’acquedotto. Durante la nostra ritirata sentivamo chiaramente come qualcosa di molto grosso, ma del quale non conoscevamo la natura, ci stesse inseguendo. Anzi, nonostante i nostri sforzi, stavamo per essere raggiunti. Arrivati in una saletta sormontata da un piccolo camino, Roberto ha dato una secca indicazione “…andiamo su…”. Ci siamo quindi arrampicati, il più velocemente possibile, cercando di allontanarci dal fondo dell’acquedotto dove scorreva l’acqua. In quel preciso momento, una creatura massiccia, irsuta e sbuffante ci ha raggiunto e ci è passata, a tutta velocità, fra le gambe. Ci è voluto un attimo prima di riconoscere l’animale (specialmente per me che venivo da un’altra regione) ma finalmente Roberto si è messo a ridere dicendo “…è un istrice, un istrice…”. Il mistero è stato risolto. Il povero animale, probabilmente entrato da qualche buco nell’acquedotto per abbeverarsi, si è visto bloccato nel cunicolo da noi speleologi che stavamo avanzando. L’istrice è quindi arretrato, precedendoci, finché non si è reso conto che il passaggio si chiudeva con una frana. A questo punto, ha tentato il tutto per tutto. E’ partito “a tutta birra”, puntando sul nemico (che in quel caso eravamo proprio noi), cercando in qualche modo di raggiungere l’uscita. Io non avevo mai incontrato un istrice e devo dire che un esemplare adulto, arrabbiato e con gli aculei tutti arruffati fa una certa impressione. Dopo aver capito di cosa si trattava abbiamo riso della nostra reazione, ma la fuga ci era sembrata, al momento, l’unica soluzione possibile. Devo dire che abbiamo riso ancora di più aspettando la reazione dei compagni che ci seguivano. Anche loro si sono visti piombare addosso l’animale impaurito e numerosi strilli sono risuonati nel silenzio dell’acquedotto, specialmente da parte dell’unica ragazza che faceva parte della spedizione.
Ancora oggi, quando abbiamo l’occasione di incontrarci, io e Roberto ricordiamo questo curioso avvenimento, che ci riporta alla mente un bel periodo fatto di esplorazioni e di grandi discussioni sulle cavità artificiali.

L'immagine ritrae l'amico Roberto nella galleria della "Formina" (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 11:52 | 1 comments