venerdì 28 dicembre 2007
Non l’avrei mai immaginato, ma recentemente ho scoperto di essere stato ad Atlantide… e mi riferisco proprio a quella vera, la mitica terra citata da Platone.
Il primo accenno a questa eventualità l’ho trovato su un libro che ho letto qualche settimana fa, dove si accennava ad una nuova ipotesi. La conferma finale, invece, l’ho ricevuta guardando la televisione, dove ho potuto seguire un documentario presentato dal giornalista scientifico Mario Tozzi che, parlando del mito di Atlantide, iniziava con l’enunciare le varie teorie più conosciute, come quelle che vogliono questa leggendaria terra collocata sull’isola di Santorini, ma anche a Malta, Creta, nelle Canarie, alle Azzorre, nei Caraibi, nello Yucatan, nell’Oman…
L’ultima teoria riportata, invece, è stata quella che più mi ha colpito. Identificando Atlantide come una terra circondata dal mare posta al di là delle “colonne d’Ercole”, ricca di minerali, con grandi strutture circolari e concentriche spazzate via da un’inondazione, questa nuova ipotesi ha spostato le “colonne” (ideale portale che fungeva da confine al mondo Egeo allora conosciuto) dallo stretto di Gibilterra al canale di Sicilia ed ha identificato questa mitica terra con la Sardegna. Effettivamente qualche indizio potrebbe corrispondere, come la ricchezza di minerali e l’abilità dei suoi abitanti nel lavorarli. Potrebbe corrispondere anche la grande inondazione, della quale si possono trovare ancora oggi i sedimenti nella grande pianura del Campidano. Per finire, anche le grandi costruzioni a pianta circolare corrispondono perfettamente alle morfologie dei nuraghi.
Non basta, approfondendo questa ipotesi, è stato indicato perfino quello che doveva essere uno dei centri principali di Atlantide, in seguito distrutto dalle onde, e più precisamente il complesso nuragico della reggia di Su Baromini.
Immaginate la mia sorpresa: questa primavera, quando sono stato in Sardegna in occasione del XX Congresso Nazionale di Speleologia, ho visitato questo interessantissimo complesso megalitico, che effettivamente ancora oggi trasmette un’impressione di solidità ed imponenza.
Posso quindi inserire nel curriculum che, nel mio girovagare, ho avuto il privilegio di visitare anche la terra di Atlantide. Certo, fa un po' d'impressione…
(Foto Guglia)

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mercoledì 26 dicembre 2007
Non è bello richiudersi su se stessi, rivolgendosi solamente al passato.
Anche quando arrivi ad una certa età (quella di mezzo, quando ti senti ancora giovane ma il fisico non ti appoggia più durante l’azione e, comunque, non sei ancora tanto vecchio da rassegnarti nella rinuncia alle tante cose a cui sei abituato) è estremamente pericoloso guardare unicamente a quello che sei stato.
E’ necessario continuare a coltivare i propri sogni, a nutrire i propri desideri, a plasmare un futuro che - alla fine - è ancora tutto da comporre.
Allo stesso tempo, però, quello che è stato deve rimane il saldo bagaglio da cui partire, la base sulla quale costruire. Io sono diventato quello che oggi avete davanti agli occhi (nel bene e nel male) perché ho vissuto certe esperienze, ho conosciuto certe persone, ho fatto certi sbagli. Sono imprescindibilmente legato al mio passato e non potrebbe essere diversamente.
Perciò, quando parlerete e condividerete qualcosa con me, diverrete anche voi - in piccola parte - partecipi della mia storia, delle mie avventure e dei miei dubbi, delle mie speranze e delle mie delusioni.
Ogni mia parola ed azione, se consapevole, conterrà una briciola delle mie tante giornate passate in grotta, delle notti in montagna a guardare le stelle, dell’arrancare fra le pietre con uno zaino troppo pesante, delle infinite bevute attorno ad un falò.
Non tradirò mai le mie radici e trarrò da esse le necessarie energie per andare avanti.
Quindi non guardatemi con sufficienza quando vi racconterò, ancora una volta, qualche episodio del mio vissuto (sia esso speleologico o di vita comune), perché è anche grazie a quel piccolo avvenimento che oggi sono quello che sono.

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posted by Paolo at 18:18 | 2 comments
domenica 23 dicembre 2007
Dopo aver fatto fare al personaggio di fantasia che ho chiamato Marco la “fine del topo”, ho cercato di riscattarmi scrivendo nuovamente di lui, ma mirando ad un finale questa volta un po’ più allegro.
In realtà, parola dopo parola, è venuto fuori un raccontino nel quale al protagonista è riservata un’ennesima brutta fine. Vedremo se nel prossimo scritto a lui dedicato riuscirò finalmente a confezionargli un destino più gratificante e soddisfacente.

Marco strisciava in quello stretto cunicolo con vigore, seguendo la sagoma appena illuminata dell’animaletto. Pur essendo un esperto in materia, non aveva mai trovato un insettivoro di quella specie in territorio urbano, per cui voleva approfondire ad ogni costo la scoperta. Cosa ci faceva un toporagno in quei passaggi artificiali posti proprio al centro della città? Il musetto appuntito non lasciava dubbi sulla specie di appartenenza dell’animale, anche se vi erano alcune differenze alquanto curiose. Non corrispondevano le proporzioni delle zampe e nemmeno la forma della coda, per cui non rimaneva che raggiungere la bestiola e verificare direttamente ogni ipotesi.
Il piccolo essere lo precedeva forse di un metro e Marco decise che non se lo sarebbe lasciato scappare. Dopo una curva, il passaggio si allargò improvvisamente e, con un agile balzo, il ragazzo planò in mezzo ad una camera. L’ambiente era completamente immerso nel buio, ma - dal rimbombo - doveva possedere delle dimensioni ragguardevoli. Marco, nonostante la poca luce disponibile, cercò subito sul pavimento le tracce dell’animale che aveva così caparbiamente inseguito, finché non lo scorse in un angolo, fra due grosse pietre. Probabilmente in quella stanza c’era la sua tana e forse, con un po’ di fortuna, sarebbe stato possibile incontrare anche qualche altro esemplare. A questo punto decise che bisognava assolutamente dotarsi di un’illuminazione più adeguata e quindi cercò di accendere la lampada a carburo. Mentre stava armeggiando con l’accensione piezo del casco, però, Marco notò qualcosa di insolito. Concentrandosi, poté osservare - per un momento - tanti puntini luminosi che lo circondavano da ogni lato. Finalmente, con uno scatto metallico, la potente luce della fiammella illuminò la scena. Per prima cosa scorse il piccolo insettivoro che aveva rincorso, ritto in un angolo, che lo guardava con due occhietti lucidi e neri. Sembrava quasi che stesse ridendo, mentre con le zampette si lisciava i lunghi baffi bianchi. Poi, allargando lo sguardo, Marco poté vedere che non era solo: decine di altri esseri lo stavano fissando. Non piccole ed innocue bestioline, però, ma corpulenti animali grossi come gatti. Mai visti esemplari di quelle dimensioni! Lo speleologo pensò subito agli aspetti scientifici di quella inaspettata scoperta: una nuova specie di soricidi, forse una mutazione genetica o una particolare selezione naturale, in ogni caso un importante ritrovamento… Marco non ebbe nemmeno il tempo di completare questi pensieri che, come rispondendo ad un unico segnale, tutti gli animali fecero un balzo nella sua direzione, travolgendolo e coprendolo con la loro pelosa massa in movimento. Quasi subito, la fiammella della carburo si spense e rimase solamente il fascio di luce della lampada elettrica a sciabolare nel buio. Un urlo, qualche colpo, poi ritornò il silenzio.
Certamente una scoperta naturalistica di grande interesse, ma ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo prima che la notizia venga divulgata al mondo intero…

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posted by Paolo at 17:27 | 0 comments
mercoledì 19 dicembre 2007
Se penso alle mie ricerche nel campo della speleologia in cavità artificiali, devo ammettere che il campo di studio che più mi ha interessato è stato quello legato alle opere idrauliche.
Mi ha sempre affascinato il lavoro fatto dall’uomo per rendere più abitabile il proprio territorio e quale tema può risultare più importante per lo sviluppo di una comunità di quello legato al suo approvvigionamento idrico?
A tale proposito, ho sempre immaginato che l’uomo, in ogni tempo, abbia seguito tre regole semplici e fondamentali: recuperare l’acqua utile, conservare l’acqua utile ed allontanare l’acqua superflua.
L’applicazione pratica di tali ragionamenti si può trovare studiando lo sviluppo di ogni nucleo storico presente nel nostro paese (e non solo) e si tratta - alla fine - di regole valide ancora oggi. Ma vediamo di sviluppare tali ragionamenti. La nascita e lo sviluppo di una città implica inevitabilmente una certa disponibilità di acqua potabile. Se non c’è acqua a sufficienza, la città muore. Ecco quindi che risulta necessario procedere all’ottimizzazione delle risorse idriche naturalmente disponibili, modificando sorgenti e potenziando le fonti presenti. Si scaveranno, inoltre, pozzi per accedere alle eventuali falde sotterranee superficiali, cercando di drenare l’acqua presente nel terreno.
Qualche volta, però, tutto questo non risulterà sufficiente. L’impoverimento di qualche sorgente o lo sviluppo improvviso del centro abitato possono portare all’urgente necessità di una maggiore quantità d’acqua. A questo punto l’unica cosa possibile da fare è quella di andare a prendersi l’acqua nelle vicinanze, trasportandola con apposite condotte nella città. E’ questa la fase degli acquedotti che, con lunghezze talvolta anche molto estese, vanno a raccogliere la preziosa risorsa disponibile nei dintorni, per renderla fruibile al centro abitato. Avere la disponibilità teorica dell’acqua, però, non è sempre sufficiente. Spesso le sorgenti risentono di prolungati periodi di magra e le portate possono variare anche di molto nel corso dell’anno. Il prezioso elemento deve allora essere immagazzinato nei periodi di maggiore quantità, per essere poi utilizzato nei momenti di siccità delle fonti. Vengono quindi create delle riserve, ovvero cisterne e serbatoi di raccolta ed accumulo. Nonostante questi tentativi per uniformare l’offerta idrica, ci possono essere anche dei singoli momenti nei quali l’acqua risulta, invece, addirittura sovrabbondante, in quantità maggiore rispetto a quelle che sono le richieste di utilizzo. Esiste poi il problema della trasformazione, cioè quello legato alla produzione di un certo quantitativo di acqua sporca, non più utilizzabile e quindi da eliminare. Con il tempo nascono allora appositi sistemi di smaltimento: canali e cunicoli per l’allontanamento dalla città dell'acqua oramai diventata un problema. A quest’ultima categoria di cavità possiamo affiancare - per analogia - anche quelle legate alle bonifiche dove, per utilizzare al meglio un territorio con problemi di impaludamento, risulta necessario allontanare l’acqua stagnante con apposite strutture di trasporto.
Se si osserva bene, potremo riscontrare che, in ogni centro abitato - per quanto piccolo - sono stati applicati questi ragionamenti: la disponibilità d’acqua potabile è stata ottimizzata potenziando le fonti naturali disponibili, quando queste non sono risultate sufficienti, sono state costruite apposite strutture per avvicinare l’acqua disponibile nei dintorni; quest’acqua è stata quindi accumulata ed immagazzinata; infine, sono state create apposite strutture per allontanare l’acqua in eccesso, oppure divenuta sporca e non più utilizzabile. Queste argomentazioni sono risultate evidenti analizzando la storia dell’approvvigionamento idrico della città di Trieste, ma saranno egualmente applicabili allo sviluppo di qualsiasi altro centro abitato. Provate a fare le opportune verifiche e vedrete che non sbaglio.

La foto è stata scattata in una miniera della toscana Ringrazio la gentile collaboratrice, probabilmente anconetana, di cui però non conosco il nome (Foto Guglia).

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domenica 16 dicembre 2007
Il titolo non può che essere condiviso: abbasso la politica quando ci si deve confrontare su altri piani, via la politica quando si parla di speleologia.
Questo concetto non è sempre facile da applicare, ma per la sopravvivenza di un gruppo speleologico dovrebbe essere la regola. Le condizioni, però, non sono state sempre le stesse e ricordo bene quelli che erano i contesti riscontrabili agli inizi degli anni settanta. Allora - appena passato il "sessantotto" - era normale che ogni ragazzo si sentisse impegnato in qualcosa. Non c’era quel qualunquismo imperante che si può trovare ai nostri giorni. In quegli anni si discuteva, si partecipava, ci si infervorava. Probabilmente si è trattato di una grande utopia, ma nel profondo degli animi si sentiva la necessità e la possibilità di influire sul sistema.
Oggi ci si è adeguati ad un certo modo di fare politica e ci si è rassegnati. Allora, invece, si pensava che con l'impegno e la dedizione si potesse cambiare il mondo.
Questo si rifletteva, in qualche modo, anche sull’ambiente della speleologia.
Mi ricordo che, quando ci si trovava al sabato sera attorno al falò presso la casetta di Trebiciano (era ancora possibile accendere grandi fuochi nei pressi dell’edificio oggi adibito a Stazione Sperimentale Ipogea) si iniziava a bere, a scherzare ed a cantare tutti insieme. Ad una certa ora, però, si formavano due gruppi distinti: da una parte i provocatori "di sinistra", dall’altra i reazionari "di destra". La contrapposizione si scatenava in un alternarsi di canti, scanditi con regolare cadenza: prima "Bandiera rossa", a seguire "Faccetta nera", e così via. Forse qualcuno penserà che con un inizio di questo tipo, il finale non poteva che portare ad una rissa catartica e liberatrice, ma in realtà ciò non è mai successo. Dopo un po’ di sberleffi e di provocazioni, il tutto si concludeva con una solenne bevuta ed un abbraccio collettivo.
Questa è una cosa che ho sempre apprezzato. Forse sarà stata un’eccezione, ma pur essendo divisi fra "rossi" e "neri" alla fine si era veramente affiatati. Anzi, devo dire che alcuni fra i miei migliori amici erano dichiaratamente di destra, anche se io appartenevo sicuramente (ed orgogliosamente) allo schieramento di sinistra.
Oggi la politica è più subdola. Meno ideali, meno valori morali, ma più intrallazzi per l’ottenimento di posizioni di potere. Questo ha portato, di fatto, ad un allontanamento dei giovani dalla politica, con il risultato di lasciare campo indisturbato a chi approfitta bassamente di questo stato di cose.
Ritornando a quegli anni, pensando alla politica ed all’ambito speleologico, ricordo ancora oggi i canti a squarciagola abbracciato ai compagni (ovviamente per quanto mi riguarda, gli altri si abbracciavano fra camerati…) lanciando agli avversari slogan sgangherati, con la faccia arrossata dal fuoco e la testa annebbiata dal vino, ben sapendo che tali poco credibili antagonisti erano alla fine i cari amici dei quali ti saresti fidato ciecamente quando, il giorno seguente, saresti sceso un’altra volta in grotta.

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mercoledì 12 dicembre 2007
Marco guardò con sospetto l’ingresso regolare che si apriva nel muro davanti a lui. Era già attrezzato con tuta, guanti, casco ed opportuna illuminazione, ma non si decideva ad entrare. Sarà stato perché era solo, forse perché non aveva avvertito nessuno della sua improvvisa decisione di andare a dare un’occhiata a quel cunicolo che aveva intravisto qualche tempo prima, o forse era semplicemente colpa della giornata uggiosa che, con una leggera pioggerellina che cadeva insistentemente oramai da qualche ora, infondeva un vago ed indistinto senso di tristezza.
Si avvicinò all’entrata per osservare meglio il passaggio. Facendo balenare nel buio il fascio di luce della lampada, poté vedere solo alcuni metri della bassa galleria, appena percorribile, che si perdeva nell’oscurità. Non era paura quella che sentiva, solo un senso di incertezza, che non aveva mai provato prima. Nella sua testa risuonava, senza alcun motivo, una parola insistente, che si ripeteva ossessivamente: topo, topo, topo…
Cosa poteva significare? Marco non aveva mai avuto alcuna paura dei piccoli frequentatori dei sotterranei della sua città. Anzi, lui li considerava animaletti simpatici, curiosi e riservati, che non avevano mai creato problemi nel corso delle tante esplorazioni urbane.
Cercando di togliersi dalla testa quell’immagine insistente, Marco si inginocchiò per infilarsi nella bassa apertura.
Inizialmente il cunicolo si presentò abbastanza pulito e sgombro ma, avanzando, la presenza di detriti rese la progressione sempre più faticosa. Dopo qualche metro la sezione si restrinse ulteriormente, permettendo appena il passaggio.
Mentre procedeva, strisciando con la tutta sulle pareti, Marco sentì uno strano rumore ed ebbe la percezione che l’aria stesse diventando più densa e calda. Seguirono alcuni secondi di silenzio, poi - con una specie di brontolio - sembrò che la stretta galleria implodesse su se stessa.
Le pareti si disfecero, il soffitto crollò rovinosamente, il passaggio sotterraneo si chiuse inesorabilmente su chi lo stava esplorando.
Marco pensò subito che quella volta non ce l’avrebbe fatta. Percepì un anomalo peso sulle spalle e, al buio, sentì il fiato scivolare via nel fitto pulviscolo che lo circondava.
Che stupido finire così, che stupido infilarsi in quel basso passaggio senza controllare meglio la sua solidità, che stupido non prendere le opportune precauzioni. Ma la troppa sicurezza aveva fatto sottovalutare i possibili pericoli ed ora Marco ne pagava personalmente e pesantemente ogni conseguenza.
Era troppo presto per fare quella fine…
Marco, in un ultimo respiro, capì finalmente a cosa si riferiva quella bizzarra idea che l’aveva accompagnato per tutto il giorno: non certo all’incontro con qualche innocuo roditore abitante nel sottosuolo, ma all’appuntamento con il proprio destino, che gli aveva vigliaccamente riservato quella che viene comunemente chiamata “la fine del topo”…
Un sorriso si fece strada sulla faccia di Marco imbrattata di terra, mentre l’intera struttura collassava in un turbine di polvere e pietre.

Tratto da un pensiero cupo e triste (novembre 2007).

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lunedì 10 dicembre 2007
Rammentate queste parole?

Le discese ardite e le risalite
Su nel cielo aperto
E poi giù il deserto
E poi ancora in alto
Con un grande salto…

Qualcuno, specialmente fra quelli con qualche anno in più, ricorderà certamente questi versi. Non si tratta di una poesia che descrive l’attività speleologica - come potrebbe anche apparire a prima vista - ma del testo di una canzone intitolata “Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi” scritta nell’anno 1972 dall’indimenticabile Lucio Battisti.
Qualcuno chiederà come è possibile che mi ricordi così bene della data e la risposta è molto semplice: l’album “Il mio canto libero” è stato pubblicato qualche mese prima dell’organizzazione di una spedizione speleologica della SAS all’Antro di Corchia, in Toscana.
Per me, ancora ragazzino, il dispiego di materiali e di uomini, il lungo viaggio, la grande grotta, hanno rappresentato un momento molto importante. Il fatto poi che, durante il viaggio, venisse ascoltato più volte questo album, dove - cercando bene - c’erano anche delle frasi che potevano essere ricondotte all’uscita che si stava svolgendo, è stato elettrizzante. In seguito ho spesso citato queste parole, che mi hanno sempre evocato le aeree discese lungo le corde, le faticose risalite lungo le scale (si usava ancora così). Anche il riferimento alla luce esterna in contrapposizione al “deserto” del sottosuolo era calzante: non che l’ambiente ipogeo fosse brullo e desolato, ma certo poteva essere affrontato solamente da un numero ridotto di persone, solo se in possesso delle adeguate caratteristiche e cognizioni. Ed io allora avevo appena realizzato che, nonostante tutto, appartenevo a questa minoranza privilegiata… Infine, il grande salto verso l’esterno, il passaggio dalle tenebre alla luce, dal mondo nascosto e riservato a pochi a quello della vita di ogni giorno, quasi un percorso iniziatico, un viaggio interiore, un rituale di rinascita … Anche tralasciando le interpretazioni forse troppo azzardate, devo dire che i versi in questione contenevano tutti gli elementi necessari ad infiammare la fantasia di un adolescente in subbuglio.
In ogni caso, oggi, si canta meno. Un tempo non si perdeva occasione per cimentarsi in cori e duetti, ed ogni “location” era quella buona: davanti ad un buon bicchiere di vino o in attesa del proprio turno in grotta. Forse i tempi più allungati di allora nelle discese speleologiche erano maggiormente adatti alle discipline canore, ma ricordo ore di interminabili concerti, che spaziavano in tutti i generi musicali possibili, dalle canzoni folcloristiche a quelle di montagna, dai pezzi dei cantautori a quelli più orecchiabili di attualità.
Al giorno d’oggi, invece, c’è solo qualche cantatina sguaiata, in dialetto triestino, con annesse parolacce e pesanti doppi sensi...
Anche questo - forse - è il segno di una certa decadenza della speleologia.

Restando in tema, la foto ritrae il gruppo della SAS fuori dall'Antro del Corchia (il primo a sinistra sono io...).

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sabato 8 dicembre 2007
Il Bus della Rana è una bella grotta sub-orizzontale che si apre presso il paese di Monte di Malo. La prima volta che ci sono andato sarà stato alla fine degli anni settanta, con una minispedizione di amici della SAS.
Ci sono ritornato altre volte e qualche cambiamento l’ho riscontrato, come ad esempio la realizzazione di una ferrata lungo il lago posto presso l’ingresso ed i nuovi cancelli di chiusura sistemati all’entrata.
Ritornando alla mia prima visita, eravamo in cinque, di cui ricordo bene solo Giacomo Nussodorfer (Nuss) e Maurizio Glavina (Glavu). Quella volta non c’erano a disposizione le automobili, per cui ci siamo recati a Vicenza in treno. Giunti in città, siamo stati ospiti del gruppo grotte locale e devo ancora ringraziare i nostri accompagnatori per la splendida visita guidata notturna che ci hanno fatto fare nel bellissimo centro storico. Ritirata la chiave del cancello, siamo ripartiti alla volta della grotta con l’autocorriera. Già questo viaggio è risultato abbastanza movimentato, con un bel “frontale” capitato a qualche chilometro dall’arrivo, quando alcuni ragazzi hanno deciso di emulare (evocando una famosa gara che si correva in quei giorni) i piloti di rally che si cimentavano proprio sul quella strada, riuscendo però solamente a sfasciare l’automobile su cui stavano viaggiando.
Piantato il campo, la mattina dopo siamo finalmente entrati nella cavità. Superato il cancello di chiusura, abbiamo percorso il laghetto con il canotto ed abbiamo visitato l’esteso e complesso sistema di gallerie che forma quest’interessante cavità. Molte ore dopo, oramai all’uscita, abbiamo deciso di dare un’occhiata anche ad un cunicolo laterale che si apre proprio presso l’ingresso, che se non sbaglio si chiama “ramo delle marmitte”.
A questo punto, devo premettere una cosa. La chiave che chiudeva il cancello della grotta era gelosamente custodita, allora, da tre gruppi speleo. Ogni associazione vigilava sull’attività delle altre, controllando in modo incrociato le modalità di accesso consentite ai soggetti esterni. Per questo motivo ci è stato calorosamente raccomandato di stare attenti, redarguendoci sul fatto che l’essere lasciati soli senza accompagnamento era un grande gesto di fiducia e che se, malauguratamente, la chiave veniva persa ciò rappresentava un grosso guaio. Non era possibile, infatti, farne una copia e quindi bisognava avvertire gli altri due gruppi, con gli evidenti problemi che ne potevano conseguire. Noi abbiamo rassicurato che saremmo stati attentissimi e che quindi non c’era da avere alcun timore.
Tutto è andato per il meglio, finché non ci siamo infilati nel ramo secondario di cui vi ho anticipato. Non si trattava di passaggi difficili: solo qualche piccolo dislivello in risalita e tanta acqua. Tralascerò sul chi sia stato e in che modo sia successo, vi dirò solamente che ad un certo punto la chiave è caduta in una pozza (proprio una delle marmitte che da il nome al ramo nel quale ci trovavamo). Resoci subito conto del grande pasticcio, abbiamo fatto di tutto: abbiamo scavato, spostato sassi, costruito sbarramenti, ma la chiave non saltava fuori. Mi ricordo addirittura che ad un certo punto, disperati, ci siamo distesi di traverso al corso d’acqua per fare una diga umana e permettere agli altri di cercare meglio, ma senza alcun risultato. Dopo un po’ di tempo abbiamo, quindi, deciso di rinunciare.
Noi eravamo sicuramente afflitti, ma mi ricordo perfettamente la faccia del responsabile a cui dovevamo restituire la chiave ed al quale abbiamo dovuto confessare il fattaccio. Il viso sorridente è diventato immediatamente serio, mentre le guance diventavano sempre più rosse. Poi, senza dire una parola, ci ha fatto il gesto di uscire dall’ufficio dove avevamo l’appuntamento per la restituzione. Nessuna minaccia, nessun improperio, ma siamo stati cacciati in silenzio, inseguiti da sguardi di fuoco …. Penso che ce lo siamo proprio meritato.
Nonostante questo contrattempo, l’uscita si è comunque conclusa felicemente in una cascina sui colli attorno a Vicenza dove, in compagnia degli spelo locali, ci siamo presi una bella ciucca liberatoria a base di un buon frizzantino bianco del posto.

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giovedì 6 dicembre 2007
Piccolo racconto con alcune caratteristiche per me nuove, quasi di genere sexy. Le circostanze sono completamente inventate ed i personaggi di pura fantasia. Lui l’ho chiamato Paolo, lei Sara. Inizialmente avevo pensato al nome di Valeria (anch’esso di pura fantasia…), ma alla fine mi è sembrato indelicato.

Lui e Lei (racconto)

Erano in grotta, oramai, da vari giorni. La piena li aveva sorpresi senza dare nessun preavviso e dopo una lunga attesa al campo, erano oramai stanchi e sfiduciati.
Non che le loro condizioni fossero state fino a quel momento disperate, in quanto avevano avuto a disposizione una bella tendina accogliente dove ripararsi, ma i viveri erano finiti ed il livello del vicino torrente - lo stesso che aveva completamente inondato tutte le gallerie verso l’uscita - invece di abbassarsi aveva continuato a salire inesorabilmente. Paolo guardò a lungo il corso d’acqua che scorreva impetuoso e spumeggiante, per poi ritornare al campo e raggiungere Sara nella tendina. Il tepore era invitante e quindi - appena entrato - si tolse la pesante tuta impermeabile.
Si conoscevano da anni: Paolo un esperto speleologo da sempre nel gruppo, Sara una giovane allieva promettente, stregata dal mondo delle grotte. Erano sempre andati d’accordo e c’era fra di loro una strana complicità, anche se un certo numero di anni li divideva. La differenza d’età, comunque, non era mai stata un vero problema ed erano diventati ben presto buoni amici.
Paolo, armeggiando attorno al fornello per vedere un’ultima volta se la riserva di cibo era veramente finita, guardò di sfuggita Sara, che si era adagiata sopra il sacco a pelo. Il sottotuta in pile che indossava sembrava morbido e leggero, e la fasciava strettamente, evidenziando ogni curva del suo corpo aggraziato. Paolo rimase leggermente turbato, in quanto non aveva mai considerato Sara sotto questo aspetto. Si meravigliò quindi dei suoi strani pensieri ma, quasi senza accorgersene, continuò ad osservare la ragazza. Sarà stata la strana situazione in cui si trovavano, ma lui sentì nell’aria qualcosa di nuovo ed indefinibile. Sara, quasi non curandosi della presenza dell’amico, si stiracchio con una mossa elegante e quasi felina. L’indumento sottile evidenziò pienamente la curva dei fianchi, il profilo del seno, le gambe ben tornite. Lei non era quella che si può dire una ragazza bellissima, ma era sicuramente attraente e dotata di un certo fascino. Il suo corpo non era né troppo magro né troppo muscoloso. Era invece proporzionato, piacevolmente sinuoso, con un seno minuto ma rotondo e fianchi pieni che evocavano sensazioni di piacevolezza e calore.
Paolo realizzò che, forse a causa della sua età non più giovanissima, era proprio quello il tipo di ragazza che gli piaceva: non esageratamente asciutto, non particolar- mente scattante, ma morbido ed acco- gliente.
Dopo alcuni momenti di silenzio, si adagiò anche lui sul sacco a pelo, a fianco dell’amica. Rimasero in silenzio e si guardarono negli occhi. Non dissero nulla, perché in quella situazione eccezionale e strana non serviva alcuna parola. Lui pensò che oramai c’erano poche speranze. Ci sarebbero voluti svariati giorni prima che il livello dell’acqua scendesse e non c’era alcuna possibilità che gli speleosub del soccorso potessero risalire la forte corrente. Erano bloccati e non c’era alcuna via d’uscita. Una situazione estrema, che forse poteva giustificare atti e comportamenti altrimenti inammissibili…
Paolo allungò una mano e sfiorò il viso di Sara. Lei fremette leggermente, ma non certo per il freddo della grotta che sembrava così lontano nel tepore di quella tendina. Socchiuse le labbra, mentre il colore profondo dei suoi occhi azzurri cambiava tonalità, divenendo quasi di un blu profondo, e fece un leggero segno di assenso con il capo. La ragazza sentì che la testa diventava sempre più leggera. Bisognava stare vicini, in quegli ultimi momenti, condividere fino in fondo quell’estrema esperienza, affrontare assieme - abbracciati e stretti - il destino che stava giungendo.
Paolo allungò la mano in una prolungata e tenera carezza lungo il fianco di lei, che fu attraversata nuovamente da un intenso brivido caldo. Afferrò, quindi, la cerniera che chiudeva il sottotuta termico, iniziando ad aprire, con un movimento lento, il leggero indumento. Apparve il ricamo nero del reggiseno, poi si scoprì il pizzo, sempre nero, delle mutandine. Pur in condizioni così particolari come un’uscita in grotta, Sara non aveva mai rinunciato ad indossare biancheria intima di una certa qualità: aveva talvolta atteggiamenti timidi e dimessi, ma sotto sotto era orgogliosa della sua femminilità. Lui infilò una mano dentro la tuta, sfiorando appena il morbido profilo del seno, fino a raggiungere la vellutata e desiderata pelle di lei. Si guardarono ancora più intensamente negli occhi ed i loro visi si avvicinarono.
Fu proprio in quel preciso momento che si udì un forte rumore, che si fecero distinte delle voci e che varie luci saettarono per la caverna. Tutt’intorno passi di persone che si avvicinavano in fretta. Sara si ritrasse chiudendo la tuta e Paolo uscì dalla tendina. Comprese subito che alcuni volontari avevano trovato un’insperata via alta alternativa, erano riusciti ad evitare i passaggi allagati ed avevano raggiunto il campo.
Sorrisi, pacche sulle spalle, viveri e perfino una borraccia contenete del buon vino rosso. Potevano considerarsi veramente fortunati ad essere stati raggiunti in tempo.
Paolo era felice, ma un’ombra velò per un attimo la sua espressione: va bene essere salvati da un triste destino, ma quei benedetti soccorritori non potevano aspettare ancora qualche ora? Anzi, a lui sarebbe bastata anche una sola, passionale, intensa mezz’ora da passare con Sara…
Ora, ogni cosa sarebbe ritornata come prima. La domanda che continuava a ronzargli nella testa, per quanto ovviamente irragionevole, era solo una: ma perché i ragazzi del soccorso hanno sempre così tanta fretta di salvare chi si trova in difficoltà…??

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lunedì 3 dicembre 2007
Guardando fra le vecchie fotografie, ho trovato alcune immagini relative ad un campo invernale organizzato dalla SAS nella zona di Pielungo (anno 1978 ?).
Pur avendo fatto, in tale occasione, un’intensa attività speleologica, devo dire che - curiosamente - non rammento oggi alcunché di tutto quello che è successo nel sottosuolo. Ho però una precisa memoria di quanto è accaduto negli intervalli fra un’uscita in grotta e l’altra.
Mi sovviene che abbiamo dormito in un fienile e di come il padrone dell’edificio, venuto con l’intento di cacciarci dalla sua proprietà, sia stato alla fine impietosito dal nostro aspetto dimesso e ci abbia fatto rimanere. Ho perfettamente in mente alcune lunghe scarpinate che abbiamo fatto di notte: era inverno e l'oscurità scendeva presto. Allora noi partivamo da Pielungo per raggiungere a piedi la trattoria che si trovava a Pradis Grotte, a circa otto chilometri di distanza. Si trattava di un percorso lungo e buio, spesso spazzato dal vento gelido e dove talvolta si formavano lastre di ghiaccio. Arrivati nella trattoria si faceva baldoria fino a tardi con gli amici del posto, che conoscevamo da anni, per poi rientrare - a notte fonda - al fienile dove dormivamo. In alcuni casi abbiamo impiegato anche quattro ore per ritornare, sia a causa del grande freddo, sia della quantità d’alcol ingerita (d’altra parte era più che giustificata l’assunzione di una dose personale di antigelo…).
Di quelle camminate ricordo ancora oggi il cielo stellato. Penso che quella sia stata l’ultima volta in cui ho visto davanti ai miei occhi tutto il luminoso firmamento. Una miriade di punti luccicanti che disegnavano la via lattea, non disturbati da alcuna fonte luminose artificiale. L’atmosfera tersa di quei giorni e l’aria cristallina facevano poi il resto. Quello spettacolo unico, il numero di stelle visibili e la loro brillantezza, rimarranno per me un preciso riferimento, che ben difficilmente sarà possibile superare in altre occasioni.
Devo dire che mi mancano un po’ questi campi, non solo per la possibilità di fare una sana attività speleologica, ma principalmente per la compagnia degli amici e la condivisione di un’esperienza dura ma gratificante.

L’
immagine ritrae gli amici Libero Degrassi e Fabio Longo davanti al fienile dove dormivamo (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 09:57 | 0 comments
sabato 1 dicembre 2007

E’ stata dura, ma alla fine sono stati pubblicati sul blog ben 100 post.

Ho parlato di tanti argomenti ed alla fine sono riuscito a vuotare qualche cassetto di carte che, scritte negli ultimi anni, aspettavano pazientemente di trovare una loro adeguata collocazione. Ovviamente non sono mancati anche i testi scritti appositamente, riguardanti vicende accadute recentemente, ed è stato interessante riordinare le idee anche su questi avvenimenti di una certa attualità.
Non voglio certo trarre dei bilanci per quanto riguarda la riuscita complessiva del blog, in quanto - come a suo tempo ho già affermato - contava per me solamente la possibilità di disporre di un contenitore dove raccogliere i vari brandelli di pensieri e ragionamenti da me prodotti sull’argomento “grotte e sottosuolo”.
Devo comunque dire che ho ricevuto vari apprezzamenti sulla mia iniziativa informatica.
Tali apprezzamenti hanno riguardato sia i contenuti che la parte grafica del blog, con il suo fondo nero che ben si adatta all’ambiente buio delle grotte.
A questo punto, però, proprio in occasione del centesimo post, voglio introdurre una novità.
Ho deciso, infatti, di cambiare l’aspetto complessivo del blog, utilizzando una forma forse meno spettacolare della precedente, ma sicuramente più decifrabile. E’ risaputo, infatti, che un testo chiaro su fondo scuro è oggettivamente meno leggibile di un testo scuro su fondo chiaro, ed è per questo che le varie università e centri di ricerca usano sempre la seconda soluzione per i loro siti di divulgazione scientifica.
Nel mio caso, ho preso la decisione di cambiare non tanto per motivazioni così tecniche ed importanti, quanto perché ad una certa età iniziano a comparire i primi problemi alla vista e difficoltà nella lettura...
Per concludere, la mia speranza è solo quella che chi ha condiviso con me questa particolare esperienza (pochi lettori, ma fidati), continui a frequentare queste pagine virtuali. Allo stesso tempo auspico che chi si avvicina per la prima volta al blog non prenda paura alla prima occhiata, ma tenga duro e provi ad approfondire un po’ la lettura.
Fatti gli opportuni calcoli, è risultato che per pubblicare 100 post ci sono voluti 395 giorni, con una media di un post circa ogni 4 giorni. E’ mia intenzione di continuare nel futuro almeno con la stessa cadenza e quindi vi do fin d’ora appuntamento al prossimo dicembre 2008 per il traguardo dei 200 interventi. Spero di esserci e che ci sarete anche tutti voi …

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posted by Paolo at 09:55 | 2 comments