lunedì 30 luglio 2007

Questa domenica si è svolta una bella gita della SAS per la visita di una miniera della Carnia. Si tratta di un’opera estrattiva già documentata da un altro gruppo regionale, ma della quale avevo sentito parlare molto bene.
Siamo partiti da Trieste in dieci persone e, giunti in val d’Aupa, abbiamo iniziato a cercare il sentiero che ci doveva avvicinare alla miniera. Le descrizioni in nostro possesso erano però alquanto carenti e del percorso indicato non c’era alcuna traccia. Dopo alcuni tentativi, non è rimasto che affrontare direttamente il rio del Fous e risalirne il corso. Si è trattato di una tragitto non difficile, ma durante il quale è stato necessario prestare un po’ di attenzione nel superamento di massi e di passaggi scivolosi. Dopo una mezz’oretta siamo finalmente giunti all’entrata della “miniera bassa”. Si tratta di una semplice galleria posta su due livelli, in buon stato di conservazione. Qualche peripezia per permettere ad alcuni di noi di scendere i pozzetti che raggiungono la galleria “Costanza”, ma complessivamente un percorso facile e suggestivo di circa 450 m.
L’uscita è quindi proseguita nella ricerca della “miniera alta”. Raggiunta inizialmente una galleria di esplorazione con un’estensione di 50 m, abbiamo puntato verso l’alto, nella direzione nella quale doveva trovarsi la seconda opera estrattiva. Senza alcuna traccia di sentiero, è stato necessario risalire il ripido bosco fino a raggiungere una specie di cava a cielo aperto. In questo punto si aprivano gli imbocchi delle varie gallerie. Se la “miniera bassa” mi era sembrata abbastanza bella ed interessante, la “miniera alta” ha superato ogni mia aspettativa: una serie di gallerie, perfettamente conservate, alternate a grandi saloni, con vari ingressi che si affacciavano all’esterno. I giochi di luce, la complessità dello scavo e gli scorci sul paesaggio circostante hanno sicuramente ripagato la fatica fatta per raggiungere questa parte del complesso minerario.
Tre sono stati i punti che mi hanno colpito di più. In un tratto delle gallerie, il vento ha accumulato - probabilmente nel corso di molti anni - una strato di foglie secche che ha completamente invaso il pavimento. Per superare questo passaggio abbiamo camminato nelle foglie che arrivavano fino alle ginocchia: un’esperienza strana e curiosa.
In un’altra caverna, invece, era ancora presente un’intelaiatura di legno che, probabimente, faceva parte di una specie parete posta trasversalmente al passaggio. Di questo tramezzo, oggi è rimasta solamente la struttura di sostegno della porta, anch’essa non più presente. Il tutto dava, però, qualche idea di quelle che dovevano essere le sistemazioni fatte in questi vani, con opere in legno che delimitavano spazi e facilitavano in qualche modo la vita di chi, in questi ambienti, ci lavorava giorno dopo giorno. Sembrava quasi di poter veder comparire la figura di un vecchio minatore che si affacciasse ancora all’interno di quella vecchia sagoma di porta, in un gioco di sensazioni ed impressioni molto particolare.
Per finire, mi ha colpito particolarmente il ponte sospeso presente nei rami superiori della miniera. Il posto è particolarmente suggestivo: la galleria si affaccia su un terrazzo posizionato a pochi metri da una bella cascata che, dal suo stretto alveo, precipita nella forra sottostante. La galleria continua, però, anche dalla parte opposta della gola, larga in quel punto non più di 5 m. Il piccolo ponte di collegamento è oggi distrutto e sono presenti solamente due travature metalliche che passano da parte a parte. Sotto, varie decine di metri fino al torrente spumeggiante. Non abbiamo portato le attrezzature necessarie per superare questo passaggio (più impressionante che difficile), ma ci riserviamo di ritornare. In ogni caso, si tratta di un punto estremamente spettacolare e panoramico.
Terminata la visita delle miniere, siamo ritornati verso le automobili, scendendo lentamente sempre lungo il torrente, con i sacchi di materiale e gli zaini in spalla.
La giornata si è conclusa con la visita alla Sagra del gambero ad Amaro e con la visita di due belle opere sotterranee del “Vallo Littorio”, strutture militari quasi introvabili se non si è a conoscenza della loro esatta localizzazione.
In generale, si è trattato di una bellissima giornata passata all’aria aperta, visitando posti interessanti ed in ottima compagnia.
Visti i positivi risultati, mi vedrò costretto ad organizzare qualche altra uscita domenicale, per far conoscere ai miei giovani consoci qualche altro posto particolare e suggestivo del nostro vicino Friuli.

Nelle due foto si possono osservare rispettivamente le gallerie della miniera bassa e di quella alta (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 20:59 | 0 comments

Il piacere di andare in montagna non comprendeva per me solamente le vie di roccia, ma anche le ascensioni alle grandi montagne delle nostre Alpi. Ho percorso vari itinerari e posso citare, fra le tante, le salite al monte Rosa, all’Ortles, alla Presanella ed al Cevedale. Pur essendo quasi priva di difficoltà, è forse quest’ultima quella che mi è sembrata la più spettacolare. Si tratta di una semplice camminata su una vedretta di ghiaccio che, partendo da rifugio Casati in Valfurva, permette di raggiungere le due cime del monte. A parte un breve tratto più ripido, è un percorso facile dove, forse, non serve nemmeno legarsi in cordata (almeno noi non l’abbiamo fatto). Mi è però rimasto perfettamente impresso nella mente il panorama che si può osservare dalla cima Sud-Ovest (3.769 m). Subito davanti si possono vedere le vette del Gran Zebrù e dell’Ortles, mentre dalla parte opposta lo sguardo può seguire la stretta cresta che porta alla cima Nord-Est (3.757 m). In lontananza, si possono distinguere l'Adamello, la Presanella, il Brenta, il Bernina ed il Monte Rosa.
Non mi dilungo più di tanto sugli aspetti tecnici di questa risalita, in quanto si tratta solamente di un’escursione in ambiente di alta montagna (dove necessitano comunque i ramponi e la piccozza), ma sottolineo la bellezza dell’ambiente e la particolarità del panorama. Non è detto che le ascensione più difficili siano sempre quelle che riservano le soddisfazioni maggiori e la salita del monte Cevedale rientra pienamente in questo caso.

Nell’immagine si può vedere la stretta e panoramica cresta che collega la cima Sud-Ovest del monte Cevedale a quella Nord-Est (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 18:55 | 0 comments
domenica 15 luglio 2007

Se penso alla mia più che trentennale attività, se mi guardo indietro, vado con il pensiero ai tanti amici che ho conosciuto e con i quali sono sceso nel sottosuolo. La speleologia non è solo roccia, acqua, buio e tecnica, ma è anche collaborazione, affinità e passione comune. E' difficile ricordare tutti e mi stupisco di come, talvolta, certe facce ancora perfettamente impresse nella mia mente non trovino più alcuna corrispondenza con un nome.

Fra i tanti con i quali ho lavorato, però, alcuni si definiscono meglio, probabilmente per il particole legame di stima che si è instaurato. Non si tratta di persone che frequento regolarmente, in alcuni casi non ci sentiamo da tempo, ma nonostante questo è sempre percepibile una speciale intesa.

Sono anni, per esempio, che non ho il piacere di incontrare personalmente Fabrizio Ardito. Ci siamo visti la prima volta alla fine degli anni ottanta, in occasione della stesura del suo libro "Città sotterranee. Quindici itinerari sotto strade e piazze d’Italia", per documentare le cavità artificiali di Trieste. Mi avevano subito colpito alcune piccole caratteristiche che ci accomunavano, non solo speleologicamente parlando: stessa generazione, allora fumavamo lo stesso tabacco per la pipa, prediligevamo lo stesso libro di fantascienza, eravamo reduci dall'esplorazione della grotta Provatina in Grecia. Entrambi, appassionati di fotografia e divulgazione, eravamo passati dal mondo delle grotte, a quello delle cavità artificiali, percependo l'enorme potenziale di interessi storici ed umani che si potevano schiudere attraverso l'indagine di questo vasto ed inesplorato mondo sotterraneo. Ci siamo poi incontrati saltuariamente, ad eccezione di una settimana nel 1989, durante la quale mi ha portato a vedere i sotterranei della sua Roma: ho visitato mitrei, catacombe e l'interessantissimo Excubitorium. Seguo sempre con attenzione l'attività di Fabrizio e devo dire che regolarmente, ad ogni Natale, mi arriva un suo biglietto di auguri personalizzato. Mi dispiaccio di non aver mai risposto, ma è una cosa che - purtroppo - faccio con tutti. In questo caso specifico, probabilmente, dipende anche dal fatto che non ho foto tanto belle da stampare sui biglietti di auguri per reggere il confronto con quelli che mi manda Fabrizio.

E' invece da poco tempo che non ho più l'occasione di frequentare Fabio Stoch, noto biologo esperto in bestiacce sotterranee. Per un certo periodo, circa sei anni fa, siamo stati compagni di scorribande per tutto il Carso triestino e goriziano. Io cercavo cavità artificiali, Fabio campionava ogni pozza d'acqua che incontrava. A lui interessava che i propri prelievi fatti in cavità artificiale siano esattamente localizzati, con l'indicazione della posizione e del numero di catasto della cavità in questione. Io sfruttavo bassamente la sua vasta esperienza del territorio e la sua approfondita conoscenza di ogni anfratto, naturale o artificiale, esistente in queste aree. Abbiamo fatto lunghissime chiacchierate, che spaziavano dalla speleologia alla geologia in senso più ampio, dalle tecniche di costruzione di CA al rapporto delle singole opere sotterranee con il territorio circostante. Ci siamo poi persi di vista, ognuno immerso nei propri problemi quotidiani. Ho saputo che Fabio ha fatto alcuni radicali cambiamenti nella sua vita, ma spero che se passerà per Trieste, si possa nuovamente scorrazzare assieme per il Carso, chiacchierando delle tante cose che interessano entrambi.

Per puro caso, l’anno scorso, ho incontrato Roberto Nini, mentre ero in ferie con la famiglia nella splendida Umbria. Con lui ho vissuto i primi anni di stimolante attività della Commissione Nazionale Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana e ricordo con piacere alcuni giorni passati ospite a casa sua per la famosa "Festa dell'anello". In quell'occasione abbiamo anche visitato l'acquedotto della Formina, la fonte Feronia ed altre interessanti cavità. Passati l’altra estate, durante le vacanze, per la cittadina di Narni, siamo andati a cercare i sotterranei della chiesa di San Domenico, che però risultavano chiusi. Allora ho pensato di contattare qualcuno e mi sono ricordato dell'amico Roberto. Mi sono reso conto, però, che non era corretto chiamare all'ultimo momento, senza preavviso e con sole poche ore a disposizione, e così ho rinunciato. Stavamo quindi andando alla macchina per trasferirci da un'altra parte. Attraversando la piazza del paese, una persona alta mi si avvicina e chiede: "Ma sei proprio tu….". Era destino che ci incontrassimo. Roberto mi ha così aperto i sotterranei di San Domenico, che ho rivisto con piacere dopo tanti anni. Abbiamo chiacchierato un po' e mi ha spiegato i vari progetti in corso. Mi ha anche regalato un copia del suo libro “Una missione da compiere”, nella quale ho trovato, con piacere, tanti spunti in comune con le mie attività. Sono contento di aver rivisto Roberto, anche perché ho potuto dimostrare alla mia famiglia che quell'amico, assieme al quale sono stato caricato da un istrice impazzito dalla paura all'interno di un cunicolo dell'acquedotto romano, esiste veramente e non è una creazione della mia scatenata fantasia.

Sono stato relativamente più in contatto, invece, con Gianluca Padovan, conosciuto speleologo veneto/milanese. Un personaggio come Gianluca, intransigente e provocatore, o si ama o si odia. Io ho iniziato a frequentarlo alla nascita della Commissione Nazionale CA, periodo ricco di idee ed iniziative. Con il tempo, però, il clima di collaborazione all'interno della Commissione si è in parte deteriorato ed il Padovan si è allontanato sulla base di motivazioni che, pur comprendendo, condivido solo in minima parte. Ora è fra i fondatori della Federazione Nazionale Cavità Artificiali, struttura parallela ed in antitesi alla stessa Commissione SSI. Per quanto mi riguarda, trovo sempre estremamente stimolante parlare con lui, al quale riconosco tante capacità ed abilità. Pur essendo quasi sempre su posizioni completamente differenti, considero Gianluca una persona che, in qualche modo ed assieme ad altri, ha fatto la storia della speleologia in CA in Italia. Da parte mia, gli unici rimpianti sono quelli di avere una visione totalmente diversa su alcune questioni di “politica speleologica” e, nonostante le lunghissime chiacchierate e qualche bevuta, di non essere mai scesi assieme in una cavità. Spero che ci sia l'occasione, prima o poi, di fare anche questo, possibilmente continuando a confrontarci in modo acceso e stimolante, come abbiamo sempre fatto.

La foto mi ritrae a Narni in compagnia dell'amico Roberto NIni.

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posted by Paolo at 10:40 | 0 comments
venerdì 13 luglio 2007

Ci sono delle situazioni nelle quali, quando tutto sembra volgere per il peggio ed il pericolo si fa concreto, scatta la molla dell’autoconservazione. A me è successo, personalmente, più di una volta ed ho scoperto come sia possibile usufruire di un ulteriore “bonus” di energie, anche quando sembra che di queste non ce ne sia più traccia.
Un esempio concreto di questo strano meccanismo l’ho sperimentato vari anni fa mentre salivo, in compagnia di amici, su una cima quasi sconosciuta, chiamata Caserine Alte (m. 2.306). Eravamo in tre, io, Giacomo Nussdorfer (Nuss) e Paolo Tamaro (Tam). Dopo aver dormito una notte al bivacco Anita Goitan, siamo partiti per raggiungere questa vetta, lungo un facile percorso di terzo grado. Eravamo abbastanza allenati, per cui non ci siamo legati in cordata. Si procedeva lungo roccette e paretine, che abbiamo affrontato senza particolari difficoltà. Giunti quasi in prossimità della vetta, c’era una specie di canalone da superare, verticale ed alto una cinquantina di metri. Nel frattempo ci eravamo abbastanza alzati rispetto alle ghiaie della base ed i vari passaggi - seppur facili - cominciavano a diventare abbastanza esposti. Non ricordo esattamente chi stava davanti ma, dopo aver risalito quasi completamente il canalone verticale, si stava per uscire su delle cengette laterali. All’improvviso abbiamo udito un rumore strano e, alzata la testa, è stato possibile vedere una piccola frana che dalla sommità del canale scendeva velocemente verso di noi. Si trattava di sassi piccoli, ma anche di qualche pietra di considerevoli dimensioni. Il problema era che noi non eravamo legati, per cui se qualcuno veniva colpito, rischiava di precipitare fino alla base della parete. Nuss e Tam si sono subito riparati sotto a dei piccoli strapiombi sulla sinistra, ma io ero in una posizione molto esposta. Una rapida occhiata alla parete ed ho pensato che l’unica posizione da considerarsi relativamente sicura era una nicchia che si trovava a circa cinque metri sulla mia destra. Con un passaggio atletico ed un rapido traverso mi sono così infilato nella nicchia, mentre i sassi fischiavano tutto attorno. La situazione si è quindi risolta per il meglio, senza problemi per nessuno nonostante un certo spavento. Ricordo che abbiamo anche riso, quando abbiamo scoperto che la frana è stata provocata da un branco di animali: non stambecchi, non camosci, ma semplici capre capitate chissà come su quelle rocce. I veri problemi sono iniziati subito dopo. I due compagni sono risaliti e bisognava attraversare per uscire sul pianoro sommitale: quando ho cercato di uscire dalla nicchia in cui mi ero infilato ho scoperto, però, che non era per nulla facile. Anzi, pur provando e riprovando, non sono riuscito in alcun modo a raggiungere gli amici. Pensando fosse un problema legato allo spavento del momento, mi sono fatto calare una corda di sicura ma, nonostante questa, non riuscivo a spostarmi dalla posizione in cui mi ero infilato. Nel momento del pericolo, ho superato con slancio e facilità quei pochi metri per mettermi al sicuro. In seguito, nonostante tutta la calma e la concentrazione possibili, non ero più in grado di superare quello stesso passaggio in direzione opposta. Una dimostrazione di come l’adrenalina, al momento giusto, possa fare miracoli. Questa avventura mi ha insegnato alcune di cose: innanzitutto bisognerebbe sempre legarsi in cordata. E’ una necessità banale, ribadita da tutti, ma spesso non lo si fa. E’ proprio sulle difficoltà minori che si rischia di più e molte volte in maniera stupida, quindi attenzione e farsi sempre la sicura. La seconda cosa che ho capito, ma si è trattato di una semplice conferma, è che quando meno te l’aspetti, nelle situazioni di estremo pericolo, puoi contare su una marcia in più dovuta al senso di sopravvivenza che ognuno di noi porta dentro di se. La morale, comunque, è che - nonostante questa riserva di energie - è meglio non sfidare troppo la fortuna e prestare sempre la massima attenzione a quello che si sta facendo. L’ultima cosa che ho imparato, infine, è che è brutto morire in montagna, sempre ed in ogni caso. E’ ancora più brutto e fastidioso, però, se la causa della tua fine è rappresentata da un gruppo di maldestre capre che non presta la dovuta attenzione a chi sale lungo la parete sottostante …

L’immagine ritrae il panorama che si può vedere dalla vetta del monte Caserine Alte (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 18:34 | 0 comments
domenica 8 luglio 2007

Si è già discusso e parlato abbastanza delle fantomatiche apparizione del battaglione fantasma sui sentieri del monte Canin e non sarò certo io - in questa sede - a voler affrontare tale argomento sotto l’aspetto storico, folcloristico o scientifico. Cercando fra le mie carte, però, ho trovato questo scritto, solo abbozzato, che ho rivisto e completato. Un racconto di pura fantasia, che prende spunto dai fantastici avvenimenti che, talvolta, sembra accadano sulle pendici di questa affascinante montagna.


Valeria camminava veloce, cercando di sbrigarsi prima che ricominciasse nuovamente a piovere. Ne aveva vista già abbastanza di acqua, anche troppa. Aveva cercato di raggiungere i compagni, su verso Pala Celar, ma era stato tutto inutile. Non bisogna avventurarsi da soli in montagna, quando c’è il mal tempo. Appena affrontata la salita, aveva iniziato a piovere in modo insistente, con scrosci violenti e colpi di vento. Il percorso già normalmente disagevole era diventato, in quelle particolari condizioni, alquanto infido e scivoloso. Valeria si era allora fermata nel dubbio se procedere o meno, ma si era ben presto convinta quando due fulmini, balenando poco distanti, avevano lasciato nell’aria un persistente odore di ozono. Era tardi ed era troppo pericoloso proseguire: gli altri avrebbero capito ed in ogni caso sarebbero stati troppo occupati a rinforzare le tende ed impedire che il campo volasse via nella tormenta.
Ritornare indietro era la decisione giusta, cercando possibilmente di raggiungere il rifugio Gilberti prima che facesse veramente buio.
Valeria puntò allora ai pianori sottostanti, cercando di fare in fretta, procedendo in direzione del Bila Pech che spuntava in lontananza, mezzo coperto dalle nuvole basse. Ma, come spesso accade, non tutti i programmi si svolgono come inizialmente previsto. Fatte poche decine di metri, infatti, ricominciò nuovamente a piovere. Non una pioggia normale, ma vere e proprie secchiate d’acqua che arrivavano da tutte le parti, trascinate dalla violenza del vento. Bisognava trovare un riparo. Valeria si diresse, allora, verso il Pic Majot, che scorgeva appena sulla sinistra: alla sua base si apriva uno stretto meandro che, pur con qualche difficoltà, avrebbe fornito una certa protezione dalle intemperie. Ancora qualche passo ed ecco che la scura entrata della grotta si stagliò nettamente in contrasto con la parete di roccia bianca, illuminata dall’ennesimo lampo. Valeria si accovacciò nei pressi dell’ingresso, cercando un posto il più possibile asciutto. E fu in quel preciso momento che accadde il fatto strano. La pioggia si interruppe di colpo, come se qualcuno avesse chiuso con energia un gigantesco rubinetto. Il forte vento, che fino ad un secondo prima spirava teso sferzando le rocce antistanti la grotta, calò improvvisamente d’intensità. Anche la caduta dei fulmini subì una momentanea sosta e l’aria divenne ferma ed immobile. Dalla sua posizione, Valeria guardò all’esterno ed iniziò a rendersi conto che stava succedendo qualcosa di eccezionale. L’atmosfera, velata dalla nebbia, iniziò ad animarsi di una leggera e diffusa luminescenza, che faceva risaltare alcuni particolari nonostante il buio incombente. Comparvero così le prime forme: inizialmente profili indistinti, sfumati nei vapori, poi figure via via sempre più definite e delineate. Quasi in controluce, si materializzarono nella penombra le sagome di molte persone in movimento, che camminavano in fila: ombre quasi uguali l’una all’altra, senza dettagli precisi, ma inequivocabilmente uomini in armi. Si potevano riconoscere gli zaini, gli elmetti ed i fucili tenuti a tracolla.
Quello che colpì di più Valeria fu la totale assenza di rumori: il fenomeno che la ragazza stava osservando era privo di suoni, solo immagini evanescenti senza un colpo, un passo più forte, un cigolio o una parola sussurrata. Regnava l’assoluto silenzio.
Valeria aveva già sentito parlare di queste apparizioni, ma chissà perché non aveva mai creduto di poter esserne coinvolta. Aveva sempre pensato, inoltre, a qualcosa che riguardasse aree più distanti, verso ovest, come l’altopiano del Foran del Mus o i pendii del Col dell’Erbe. Poi, improvvisamente, ricordò che il fronte della Grande Guerra passava anche da quelle parti, ad una quota leggermente superiore, e tutto sembrò logico ...
Il battaglione fantasma. Anche lei era stata testimone di una delle rare e fantastiche apparizioni del battaglione fantasma.
Sbirciò nuovamente all’esterno. Erano passati solamente pochi secondi. Provò a focalizzare l’attenzione sui banchi di nebbia che galleggiavano sulle banconate di calcare, cercando di scorgere ancora qualche movimento, ma non vide più nulla. Ancora qualche attimo e, con un boato assordante, un fulmine cadde nelle immediate vicinanze, ridando il via all’imperversare del maltempo. Il vento si gonfiò di colpo, stracciando e rivoltando le nubi basse solo un momento prima quasi immobili. La pioggia riprese con violenza, sferzando in diagonale il terreno. Quella parentesi di calma innaturale, quell’interruzione strana della tormenta era definitivamente passata, perdendosi fra il bagliore dei lampi ed il cupo rimbombo dei tuoni. Nonostante la pioggia, Valeria si alzò decisa e, uscita dal meandro, si diresse verso il rifugio.
Non si guardò alle spalle, perché non aveva paura. Nella sua mente, aveva archiviato quello che aveva visto, dando una connotazione naturale all’apparizione. Prestando la dovuta attenzione ed il necessario rispetto, non si poteva avere paura della pioggia, dei tuoni, del vento. Erano cose normali ed inevitabili, che bisognava accettare. Allo stesso modo, quello che aveva vissuto era da considerarsi come parte integrante di quella montagna, qualcosa che apparteneva alle rocce, un’essenza sottile che aveva coperto come un velo quell’altipiano brullo e selvaggio. Non aveva dubbi, non si era trattato di un’allucinazione, ma di una presenza ben precisa e certamente non maligna, un’ultima traccia rimasta della sofferenza vissuta un tempo fra quei monti.
Quando Valeria aprì finalmente la porta del rifugio, la pioggia sembrò diminuire. Voltandosi, il profilo delle varie cime comparve per un attimo ai suoi occhi, illuminato in controluce dal bagliore di un ultimo fulmine.

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posted by Paolo at 10:09 | 0 comments

Una sera, parlando con mia figlia dei tempi andati, è emerso dai ricordi un avvenimento curioso che avevo completamente dimenticato: la gloriosa vicenda di “Nautilus”.

Era il 1973 e mi ero appena iscritto al primo corso di Speleologia della SAS. Dopo qualche grottina di prova, era prevista la visita della Fessura del Vento, in Val Rosandra. Si tratta di una cavità relativamente facile, con pochi dislivelli e lunghi tratti orizzontali. I rami più profondi presentano anche dei corsi d’acqua ed è proprio all’interno di questi ambienti che si è consumata la vicenda che vi voglio raccontare.
Scesi con l’istruttore (l’amico Lucio Juretig) lungo la Galleria Elissoidale, abbiamo affrontato un passaggio laterale che, nel primo tratto, presentava un bel laghetto di color azzurro. Si trattava di camminare nell’acqua, rasentando la parete, per immettersi nella galleria che proseguiva. L’istruttore, a questo punto, ci ha detto chiaramente di tenerci il più possibile sulla sinistra, seguendo la parete, perché in quel punto l’acqua non superava i 20 centimetri, mentre verso il centro la profondità aumentava. Abbiamo così iniziato ad inoltrarci lungo questo passaggio, camminando in fila indiana. Davanti c’era Lucio con la lampada a carburo e dietro noi - novelli speleo - dotati di una ridotta illuminazione elettrica. L’acqua, dopo il passaggio del primo, si è subito intorbidita, perciò non era possibile vedere chiaramente dove si stava camminando. Fatto qualche metro, si è udito un profondo tonfo e poi il silenzio. Quando ci siamo voltati, abbiamo scoperto che l’ultimo della fila era scomparso. Nessun rumore, nessun cenno della sua presenza. Ad un’occhiata più attenta, l’unico indizio del nostro compagno era rappresentato da un caschetto da cantiere color giallo (allora si usavano normalmente per andare in grotta) che galleggiava sulla superficie dello specchio d’acqua. Ci siamo scambiati un’occhiata interrogativa, dove era finito il giovane allievo che, assieme a noi, voleva diventare un esperto esploratore di grotte?
Devo dire che, per fortuna, l’istruttore ha preso subito l’iniziativa e, ritornando indietro di qualche passo, ha cominciato a cercare nell’acqua torbida, finché non ha “pescato” il nostro amico. Questi, era scivolato nell’acqua e curiosamente, pur essendo completamente sommerso, non si è agitato più che tanto, rimanendo quasi immobile in fiduciosa attesa che qualcuno lo soccorresse. Ricordo infatti che, inizialmente, non si vedeva neanche una bolla d’aria e questa strana situazione ha di fatto rallentato la pronta azione di recupero. Alla fine, comunque, la vicenda si è conclusa per il meglio: il compagno bagnato ma al sicuro e noi altri allievi, non appena compreso che il tutto si era risolto positivamente, squassati dalle risa e prodighi di sberleffi.
Ritornati all’esterno, come allora sempre succedeva, l’amico (di cui in realtà non ricordo più il nome) è stato battezzato con un nomignolo a ricordo dell’accaduto e da quel momento in poi tutti l’hanno conosciuto come “Nautilus, l’intrepido esploratore sommergibile”.
Finito il corso, Nautilus non ha più frequentato la sede, ma il ricordo delle sue gesta è stato tramandato per molti anni nelle storie che si raccontavano ai nuovi soci che si avvicinavano alla SAS.

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posted by Paolo at 10:05 | 0 comments
domenica 1 luglio 2007

Qualcuno l’ha definito “l’urlo pietrificato di un dannato”. Per me è sempre stato l’esempio di quanto possa essere estetica e magnifica una montagna. Sto parlando del Campanile di Val Montanaia (2.173 m), in alta val Cimoliana.
Quando ho avuto la possibilità di salirne la via normale (pur sempre un percorso con difficoltà di quinto grado inferiore), mi è sembrato quasi impossibile. Siamo partiti in quattro, ma alla fine la via è stata percorsa da una cordata di tre persone: in testa Aldo Fedel, dietro io e l’amico Fabio Vatore. Dopo qualche diffi- coltà iniziale, la salita si è dimostrata ab- bastanza facile, con passaggi molto aerei su ottima roccia. Quando la via si è spostata sul versante Ovest, l’esposizione è diventata assoluta ed il panorama mozzafiato. Giunti sulla cima, abbiamo suonato la campana (dicono sia di buon augurio) ed abbiamo firmato il libro di vetta (chissà se c’è ancora il mio nome sul quelle pagine appena protette, in un contenitore di lamiera zincata, dall’umidità e dal gelo…). Ci siamo quindi attrezzati per le successive corde doppie. Dopo alcuni salti iniziali non particolarmente interessanti, abbiamo affrontato la “mitica” discesa finale di 40 m in libera (conosciuta come "calata Piaz"). E’ stata veramente una discesa esposta, aperta e ventata. Siamo quindi andati al vicino Bivacco Perugini, dove abbiamo trovato un pasto caldo già pronto.
Pensando al Campanile di Val Montanaia, mi dispiace solamente di non aver affrontato, in seguito, il Campanil Basso nelle dolomiti di Brenta - uscita tanto volte programmata e mai realizzata - che avrebbe completato la risalita di quelle che io considero le due più belle torri di roccia dell’intero arco alpino.

Le foto ritraggono Aldo Fedel in piena azione da primo di cordata ed il Campanile di Val Montanaia visto dal basso (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 16:47 | 0 comments

Penso che tutti i giovani siano idealisti e sognatori. Almeno io lo ero. Ma eravamo anche abbastanza profondi e sensibili, e tutto quello che facevamo, compreso l’andare il grotta, veniva analizzato e messo in discussione, cercando di capire il significato profondo delle cose (attenzione, il ’68 non era poi passato da molto …). Si parlava, ci si confrontava e si provava a dare un senso ad ogni comportamento, anche a quelli che forse non rientravano in alcun meccanismo uniformabile, ma rappresentavano i più elevati esempi di libertà e spontaneità individuale. Io, poi, scrivevo molto e, fra le altre cose, ho composto anche delle poesie. Sono delle poesie strane, che per anni ho tenuto nel cassetto, vergognandomi quasi di averle scritte. Oggi, a distanza di tanto tempo, penso che non ci sia niente di male nel proporle, considerandole per quello che realmente sono: tecnicamente carenti, di spirito alquanto pessimistico e specchio di un periodo complesso e travagliato della mia vita. Ma eravamo giovani, sempre alla ricerca di novità e di conferme, di stimoli e di certezze. Propongo di seguito, quindi, per chi avesse la voglia e la curiosità di leggerla, una mia poesia scritta nel 1981.


La discesa.

Il ritrovarsi fra specchi martoriati di bianco calcare,
tra superfici di acqua lucente
ed il nero profondo dell’incognita,
sopra vaghe sensazioni di purezza
e cristalline verità vecchie di mille e mille anni ...
Il vuoto, il gioco aereo,
l’incontro mutevole tra il profondo più buio
ed orizzonti tagliati in secche forme.
Non c’è più paura, ti abbandoni
e l’equilibrio ti segue e ti trascina lungo un filo
dal quale è impossibile cadere.
Non importa se una luce violenta ti ferisce gli occhi
e se il nulla ti strappa a brandelli l’identità.
Cento volte hai osato,
cento volte hai vinto,
cento volte hai gettato te stesso nel fango.
Ma sei ancora qui
pronto a sfidare la realtà di ogni giorno,
questa volta piegata e costretta tra pareti molto vicine.
Sei ancora qui per provare,
finché, alla fine, il gioco ti travolgerà
sputandoti in faccia le sue regole crudeli.
Forse, gli altri già non ti aspettano più.

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posted by Paolo at 16:39 | 0 comments