venerdì 30 novembre 2007

Io non entrerò mai in un sifone. Questa è una scelta definitiva ed irrevocabile.
D
evo dire che c’è stato un momento della mia vita durante il quale ci ho provato, nel senso che mi sono imposto di indossare maschera e bombole per affrontare il mondo per me così diverso dell’elemento liquido. I soli risultati raggiunti sono stati, però, una serie di uscite in mare dove la tensione ha superato di certo il piacere dell’immersione e la constatazione che era meglio lasciare agli altri tutto ciò per il quale non si è naturalmente predisposti.

Questo non significa, però, che nella mia carriera speleologica non abbia seguito da vicino il mondo della speleosubacquea. Personalmente, ho fatto assistenza a tantissime immersioni e - tra l’altro - sono stato anche il responsabile della topografia del “Timavo Project”, programma esplorativo avviato nel 1990 alle risorgive di San Giovanni di Duino, che ha visto coinvolti alcuni fra i migliori subacquei operanti allora a livello europeo.
Per quanto riguarda in generale le mie esperienze con i speleosub, ricordo ancora con una certa sofferenza gli interminabili minuti passati con la sagola in mano (allora si usava tenere all’esterno il rocchetto della sagola che veniva via via sfilata al sommozzatore) in attesa che Libero Degrassi e Fabio Longo completassero le prime esplorazione all’Antro di Bagnoli (n. 105 VG).
Ricordo anche altre situazioni, come il forzamento del sifone di entrata all’Abisso di Trebiciano (n. 17 VG) da parte di Gabriele Crevatin (Lele) e Pierpaolo Martellani nell’anno 1977, oppure i seguenti tentativi avviati nelle parti sommerse del Lago Timeus, sempre a cura di Lele.
Ci sono state anche situazioni quasi buffe alle quali ho indirettamente partecipato, come le patetiche manovre dell’amico Libero Degrassi nello stretto sifoncino posto alla base del pozzo di accesso della Fossa di Noglar (n. 243 FR), nel corso delle quali l’unica cosa che si poteva vedere era il sedere dell’esploratore che fuoriusciva dall’acqua limacciosa durante i vari ed inutili contorcimenti per cercare di passare.
Come ricordato prima, di particolare interesse è stata la fase esplorativa del “Timavo Project”, durante la quale ho potuto vedere in azione esperti speleosub provenienti da vari paesi e sono fermamente convinto che, allora, sia stato toccato il massimo limite tecnico raggiungibile in relazione alle caratteristiche delle attrezzature a quel tempo disponibili. Delle esplorazioni subacquee al Timavo, e più in particolare al Pozzo dei Colombi (n. 227 VG), rammento anche un fatto, che mi è servito da lezione: calando i materiali verso il pelo dell’acqua, è saltato un rinvio fatto con una fettuccia su uno spuntone di roccia. La corda, cambiando improvvisamente angolazione e direzione, ha sollecitato in maniera anomala una placchetta di alluminio collegata ad uno spit, che si è spezzata in due parti. Ancora oggi quella mezza placchetta è appesa al mio zaino, per ricordarmi che un ancoraggio mal fatto può portare a risultati molto pericolosi.
Devo riconoscere che sono oramai alcuni anni che non faccio più assistenza agli amici speleosub e probabilmente le attrezzature hanno subito - in questo periodo - evoluzioni tali da essere per me quasi irriconoscibili. Come dicevo, la sola certezza, ora come nel passato, è quella che io debba rimanere sempre fuori dall’acqua, in quanto come ricorda il proverbio “Ciccio no se per barca …” (1).

(1) Per i non triestini, spiegherò che il proverbio citato ricorda come la popolazione istroromena dei Cicci (che viveva nell’interno) non sia mai stata adatta alla navigazione, che veniva invece praticata dalle esperte popolazioni della costa.

Etichette:

 
posted by Paolo at 21:30 | 0 comments
mercoledì 28 novembre 2007

Finora, nello scrivere queste pagine, ho sempre seguito due regole principali: primo, non scendere mai in polemica con nessuno; secondo, non fare pubblicità a nessuno. Sono semplici norme di comportamento, che permettono di evitare spiacevoli inconvenienti. Oggi, però, farò una piccola eccezione.
Vista la mia passione per le opere sotterranee artificiali, non posso non ricordare a chi fosse interessato che, dal 30 maggio al 2 giugno 2008, si terrà a Napoli il VI Convegno Nazionale di Speleologia in Cavità Artificiali.
Io conto di andarci e sto già lavorando per presentare un lavoro riguardante proprio il sottosuolo di Trieste. Sono occasioni veramente interessanti, dove è possibile il confronto con altri appassionati, scoprendo talvolta come, nonostante tutto, non ci sia nulla di veramente nuovo da inventare. Mi spiego meglio: osservando il lavoro portato avanti dagli altri si ha la possibilità di capire che, in alcuni casi, quello che per noi sembrava inedito e nuovo è già stato fatto molti anni fa. Questo dovrebbe far riflettere alcuni sedicenti “grandi esperti” che operano in questo campo di ricerca …
Dallo scambio di idee emergono, comunque, sempre utili spunti per migliorare le proprie metodologie di studio ed indagine, e questo non è certo cosa da poco.

Etichette:

 
posted by Paolo at 19:30 | 0 comments
sabato 24 novembre 2007

Qualcuno, un po’ di tempo fa, mi ha chiesto quali sono le procedure da adottare quando si affronta la ricerca di una cavità artificiale. Pensando che forse un giorno avrò la necessità di spiegarlo a qualcuno veramente interessato, ho raccolto le idee ed ho scritto le poche righe che seguono.

Secondo la mia modesta opinione, ci sono tre regole da applicare, tre distinti approcci da utilizzare.
Il primo ragionamento da fare riguarda il territorio. Inizialmente bisogna valutare le caratteristiche dell’area in cui dovrebbe aprirsi la cavità oggetto di studio. Bisogna analizzare la conformazione del terreno, la sua composizione geologica e le sue caratteristiche profonde. Da questi dati ricaveremo tante ed importanti informazioni. Considerando la qualità della roccia e la sua difficoltà di scavo, avremo un’idea sul possibile sviluppo della cavità (sempre in relazione all’epoca di realizzazione); con un po’ di esperienza riusciremo a capire dove è più probabile rintracciarne l’ingresso e - nel caso di opere legate all’approvvigionamento idrico - sapremo dove sarà possibile trovare questa tipologia di cavità e dove no. E’ importante pensare che una cavità artificiale è sempre legata alle caratteristiche del territorio nel quale viene realizzata e che questo limita, favorisce e comunque influenza le sue morfologie.
A questo punto entra in scena l’uomo. Il secondo ragionamento da fare riguarda, infatti, le possibili necessità espresse dall’uomo che ha frequentato quel territorio. Per fare alcuni esempi, se c’è stato un insediamento stabile i suoi abitanti avranno sicuramente realizzato opere per la raccolta dell’acqua, se l’area è ricca di minerali vi potranno essere assaggi e gallerie per l’estrazione, se si tratta di un punto strategicamente importante è probabile che siano state realizzate anche delle opere militari di offesa/difesa. E’ sempre importante pensare che l’uomo, se doveva scavare una cavità, lo ha fatto cercando di risparmiare energie e limitando al massimo i costi. Non si realizza un’opera sotterranea per caso: vi è sempre un disegno organico che implica una necessità, un momento realizzativo ed un conseguente utilizzo. Cercando di entrare in sintonia con questi concetti essenziali, si potrà capire quali presupposti siano stati utilizzati, quali interventi siano stati effettuati e con che risultato. Ripeto, scavare una cavità nel sottosuolo costa fatica e quindi l’uomo ha sempre lavorato per ottenere il migliore compromesso tra sforzo da applicare e risultato da ottenere. Partendo da questo tipo di analisi si elaboreranno delle ipotesi che potranno portare a conclusioni inaspettate.
L’ultimo ragionamento si rivolge, infine, all’insieme degli interventi antropici realizzati sul territorio. Come sopra detto, l’uomo - partendo dalle caratteristiche naturali dell’area - opera i suoi interventi al fine di soddisfare le proprie necessità. Le sue prime attività riguarderanno, di norma, la superficie esterna e basterà un’osservazione attenta per scorgere i segni di tali azioni. Dove è passato, l’uomo ha lasciato alle sue spalle strade, terrazzamenti, argini, canali, terrapieni, murature di sostegno, se non case, paesi, città e monumenti di una certa rilevanza. Le eventuali costruzioni sotterranee non possono essere avulse da tutto questo contesto ed è proprio osservando l’insieme esterno che riusciremo ad ottenere informazioni importanti ai nostri fini. Ho conosciuto persone che, guardando un’area circoscritta, andavano sicuri in un punto preciso sapendo che proprio lì avrebbero trovato una cavità sotterranea, e devo dire che in molti casi ci hanno azzeccato. Anch’io, con l’occhio oramai allenato, capisco spesso - da alcuni segnali - dove potrebbe aprisi una cavità ed in tantissime occasioni ho scoperto di aver ragione.
Sintetizzando, l’osservazione attenta delle caratteristiche del territorio nel quale ci troviamo e l’analisi di ciò che ha realizzato l’uomo per rispondere alle proprie esigenze, può portare a dei risultati molto interessanti. Anche se il tempo ha coperto con la vegetazione ed i detriti le strutture originali, guardando bene sarà possibile cogliere ciò che è naturale e ciò che, invece, non lo è. Partendo da questi ragionamenti ed immedesimandosi negli uomini che un tempo hanno operato su un certo territorio, sarà possibile andare alla ricerca di cavità proprio nel posto giusto.
Sono cose che non si imparano subito, ma che nel tempo, con l’esperienza, emergono chiaramente. Non so se questi ragionamenti potranno essere di aiuto a qualcuno, ma sono convinto che in alcuni casi, applicando di meno la furia escavatrice ed appoggiandosi di più sulla teoria e sul ragionamento, sarà possibile portare casa un maggior numero di risultati positivi e soddisfacenti. Provare per credere.

Etichette:

 
posted by Paolo at 09:25 | 0 comments
martedì 20 novembre 2007

Nella mia carriera speleologica, specialmente da giovane, ho spesso immaginato quella che poteva essere la mia grotta ideale, la cavità che raggruppava tutte le caratteristiche per me ottimali.

Detto ambiente sotterraneo, nel corso degli anni, ha spesso cambiato la sua fisionomia, adeguandosi a quelle che erano le possibilità esplorative e le ambizioni di scoperta che via via caratterizzavano il mio percorso speleologico. Alcuni aspetti sono rimasti, però, costanti nel tempo: comunque deve trattarsi di una grotta relativamente comoda, senza salti verticali, ricca di concrezioni e con particolari “presenze” al suo interno.
Qualche anno fa ho scritto anche un raccontino che descriveva, in qualche modo, tale cavità ed oggi ve lo propongo. Se qualcuno conosce una grotta reale che racchiude al suo interno tutte le caratteristiche che di seguito saranno elencate, lo prego vivamente di farmelo sapere…

Il grande lago (racconto)

Paolo scavava oramai da qualche giorno all’interno di quella stretta fessura. Inizialmente si trattava di un semplice abbassamento del suolo in corrispondenza di una paretina di roccia, ma ben presto, dopo aver spostato qualche masso, era emersa la morfologia di una piccola galleria in leggera discesa. Non c’era ancora alcun movimento d’aria, ma le prospettive sembravano buone. Paolo lavorava da solo, portando all’esterno secchi di terra e di pietre più piccole. Talvolta, qualche roccia di maggiori dimensioni doveva essere spezzata in più parti prima di essere spostata, ma lui era al corrente di tutti i metodi utili a tale operazione.
Dopo essersi infilato in una specie di cavernetta, Paolo conficcò con vigore fra le pietre del fondo il suo fido piede di porco, che lui chiamava affettuosamente “strangolino mio”. Spingendo lateralmente sentì che l’ostruzione cedeva leggermente e quindi concentrò maggiormente le sue energie. Ancora uno sforzo e tutto il materiale sul quale stava lavorando precipitò nel vuoto. Con facilità riuscì ad afferrarsi ad alcune concrezioni che si trovavano alla sua destra e poté osservare, con una certa soddisfazione, la terra e le pietre che venivano come risucchiate da una specie di fessura e che si scaricavano in un ambiente sottostante. Quello che colpì maggiormente Paolo fu il rimbombo dell’eco, segno inconfondibile di ulteriori sviluppi. Ci volle un attimo perché pulisse l’apertura dagli ultimi detriti pericolanti e si infilasse nel passaggio. Oltre lo aspettava un ampio vano che, anche dalla prima occhiata, presentava delle caratteristiche inaspettate.
Paolo era giunto alla sommità di un grande ambiente, largo una trentina di metri ma alto almeno cinquanta, che in leggera discesa si perdeva nel buio. Da tutte le parti erano presenti bellissime concrezioni: stalattiti, stalagmiti e colonne erano visibili in qualsiasi direzione si posasse lo sguardo. Il pavimento era invece formato da una liscia colata calcitica, con piccole vaschette ricolme d’acqua. Paolo era semplicemente elettrizzato da quella scoperta e decise che bisognava procedere immediatamente nell’esplorazione. Iniziò così a discendere lungo quel vano, in direzione di quel grande nero che non riusciva a penetrare con la sua pur potente illuminazione. Si incamminò senza alcuna difficoltà, scendendo la lucida colata. La pendenza era lieve, ma costante, mentre le dimensioni notevoli di quel fantastico ambiente non sembravano diminuire. Rasentò alcuni laghetti di acqua azzurra e poté osservare il corso di un torrentello che lo seguiva nella discesa. Pur essendo la progressione estremamente facile, Paolo si rese ben presto conto che il percorso che aveva fatto era già alquanto lungo e che, nel contempo, non era ancora possibile vedere il fondo di quella immensa galleria. Non rimaneva che proseguire.
La discesa continuò a svilupparsi attraverso un ambiente sempre più suggestivo: ai tanti gruppi calcitici si affiancavano soffitti ricchi di cannule e stalattiti filiformi, vaschette piene di bianche pisoliti e superfici luccicanti di cristalli. Sulle pareti spuntavano candide eccentriche, dalle forme strane e sorprendenti.
Paolo avanzò ancora lungo la discesa, sempre più estasiato dalla sua scoperta. Ad un certo punto si rese conto di un rumore sordo e cupo: concentrando l’attenzione realizzò che si trattava di una cascata ricca d’acqua che precipitava all’interno di un vano di grandi dimensioni. Bisognava scendere ancora per raggiungere tale ambiente.
Procedendo con il cuore che batteva forte, Paolo arrivò finalmente ad uno slargo, si fermò, diede più pressione alla lampada a carburo ed alzò lo sguardo: quello che apparve ai suoi occhi fu sicuramente lo spettacolo più emozionante della sua vita. Davanti a lui si apriva un’enorme caverna contenente un vasto lago. Sulla destra, scendeva dall’alto un’imponente cascata d’acqua che, con il suo rumore e la sua schiuma, dava un senso di maestosità a tutto l’insieme. Il lago doveva essere molto esteso, in quanto non era possibile scorgerne i confini. Lo specchio d’acqua limpida si perdeva, infatti, in tutte le direzioni, per confondersi nel buio più profondo.
Affascinato dallo spettacolo, Paolo cercò di seguire la sponda di quel lago sotterraneo, ma ben presto si fermò in presenza di un inaspettato ritrovamento: dalla sponda si protraeva nell’acqua un molo. Si trattava a tutti gli effetti di un molo realizzato in pietra, regolare nella struttura anche se un po’ danneggiato dallo scorrere del tempo. Sulle sue funzioni non c’erano dubbi, in quanto si potevano scorgere addirittura le bitte in pietra dove, un tempo, venivano ormeggiate le imbarcazioni incaricate di solcare quelle acque.
Paolo decise che per il momento poteva bastare. Aveva visto cose che erano al di sopra di ogni sua aspettativa; aveva scoperto una cavità che superava ogni possibile desiderio.
Durante la via del ritorno, pensò a lungo sulle particolari caratteristiche di quella grotta. Si trattava, in pratica, di una lunga galleria, splendidamente concrezionata, che scendeva inclinata dalla superficie fino a grande profondità. Nella sua parte più profonda, tale galleria si immetteva in un vano interamente occupato da un vasto lago. Il volto di Paolo si illuminò quando, fatto qualche calcolo, capì di essere sceso fino al livello di base e di essersi quindi incontrato con il mitico Timavo. L’ampia caverna terminale permetteva di raggiungere, infatti, le acque del leggendario fiume, che scorreva da sempre nel profondo dell’altopiano carsico. Pensò che doveva trattarsi di un lago veramente vasto se, in un tempo passato, qualcuno aveva avuto la necessità di costruire perfino un molo per ormeggiare le barche utilizzate per esplorare quel vasto mare sotterraneo. Lui, quindi, non era stato il primo uomo a percorrere quel passaggio; qualcun’altro, nel passato, era già sceso lungo quella grotta ed aveva visitato il lago. Pensò che, probabilmente, il molo risaliva all’epoca romana e che quindi la cavità era già conosciuta duemila anni fa… Senza particolare fatica arrivò al cunicolo iniziale, nel quale si infilò per giungere ben presto all'esterno.
Paolo rimase a lungo a fissare lo stretto ingresso che aveva scavato e che conduceva al mondo fantastico che aveva appena percorso. Pensò all’importanza della sua scoperta ed alla necessità di procedere con accurate indagini. Poi pensò anche alle conseguenti visite degli studiosi, ai sopralluoghi dei politici, alle incursioni di cronisti, giornalisti, divulgatori e curiosi vari. Immaginò la massa di persone che avrebbe preteso di vistare la sua grotta e vide con gli occhi della mente anche i vandali che sarebbero inevitabilmente scesi per portarsi a casa qualche ricordo.
Paolo restò alcuni secondi fermo, osservando quel piccolo buco nel terreno, poi fece qualcosa che non si sarebbe mai nemmeno immaginato. Quasi senza rendersene conto, con il piccone fece franare il muro di contenimento che aveva diligentemente costruito e tutto il materiale estratto si riversò nuovamente nella grotta. Non interruppe il suo lavoro e spostò massi, accumulò terra e rami, finche - esausto - non ritenne di aver concluso il suo compito. Solo lui sapeva dove si apriva la grotta, per tutti gli altri ogni segno, ogni indizio era definitivamente scomparso.
Raccolse i suoi attrezzi e si diresse verso l’automobile. Paolo aveva cercato per tanto tempo una grotta nuova di grande interesse e, ora che l’aveva trovata, gli sembrava un risultato troppo grande. Quella che aveva scoperto, infatti, era una cavità troppo bella, troppo importante per offrirla a tutti. Aveva preso la sua decisione. Forse sarebbe venuto il giorno nel quale avrebbe comunicato il suo ritrovamento, o forse questo giorno non sarebbe mai venuto. Paolo si incamminò lentamente, cosa avrebbe detto ai suoi amici, come si sarebbe comportato dopo quello che era successo? Sorrise senza voltarsi indietro. Pensò che talvolta la vita riserva delle belle sorprese. Il ricordo di lui affacciato sul grande lago sotterraneo, con la cascata che rombava lì vicino, sarebbe rimasto impresso per sempre nella sua mente …



A conclusione del racconto faccio un piccolo commento: mi accorgo che sempre di più, con la maturità, mescolo gli aspetti naturali con quelli artificiali. Oggi non immagino una grotta se non con l’aggiunta di qualche preciso segno antropico, di qualche modifica o adattamento. Considero perfetta una cavità che presenti ricchi concrezionamenti, ma dove, nel contempo, sia possibile scorgere anche qualche piccolo particolare architettonico costruito, qualche resto di colonna o le tracce di qualche capitello. Ovviamente tali tipologie ipogee non esistono, o comunque sono estremamente rare. Ma sognare non costa niente e quindi perché non ricercare il meglio?

L’immagine, un po’ sgranata e risalente a molti anni fa, ritrae la parte terminale della grotta Lindner (n. 3988 VG) che - per le sue caratteristiche - si avvicina abbastanza alla mia cavità ideale (Foto Guglia)

Etichette:

 
posted by Paolo at 15:40 | 0 comments
giovedì 8 novembre 2007

Oggi è un’attività di gran moda, classificabile a pieno titolo fra gli “sport estremi”, ma una volta era un passatempo riservato a pochi. Non esistevano manuali e guide, per cui bisognava ingegnarsi ed arrangiarsi da soli. C’è stato un periodo, nella prima metà degli anni ’80, nel quale la SAS si è dedicata a discendere varie forre, tutte poste nella vicina Carnia. Le uscite che ricordo con più nostalgia sono quelle che abbiamo fatto nella forra del torrente Cosa, nei pressi del paese di Pradis Grotte. La zona era a noi ben conosciuta, per le varie esplorazioni speleolgiche intraprese, e fin dalla prima volta abbiamo guardato con attenzione alla grande gola che incide il paesaggio. Una prima discesa è stata fatta seguendo i sentieri appena tracciati dai pescatori di trote, per giungere a rilevare una grotta che si apriva proprio alla base della forra, lungo il torrente. Quella visita ci ha permesso di osservare come, sia a monte che a valle del punto in cui eravamo discesi, il canyon si presentava stretto e particolarmente invitante.

Abbiamo così deciso di provare la discesa. Avevamo saputo che questa era già stata completata con successo da alcuni uomini della Commissione Grotte E. Boegan della SAG molti anni prima, per cui non si trattava di raggiungere alcun risultato particolare o esclusivo. C’era solamente il piacere della scoperta e l’entusiasmo di discendere in un ambiente aspro e selvaggio, non conoscendo quello che avremmo trovato. Abbiamo deciso di non entrare nella forra attraverso le strutture turistiche dell’Orrido Bianchini, che si trovano all’inizio della stretta gola, ma di seguire un ramo laterale, che presenta comunque vari salti ed un ambiente severo.
Il primo tentativo è stato fatto in modo molto tranquillo, scendendo lungo la forra laterale ed attrezzando i vari salti, il più alto dei quali raggiunge quasi i 40 m. Senza bagnarci siamo così arrivati alla gola principale che, in quell’occasione, abbiamo risalito per ritornare alle macchine.
La seconda volta, dopo aver percorso il ramo laterale, siamo scesi invece lungo la forra principale. Devo dire che, allora, davamo la precedenza più agli aspetti tecnici della discesa ed eravamo più attrezzati con corde, chiodi e moschettoni che con i materiali necessari per progredire nell’acqua fredda. Tutto si è complicato, infatti, quando l’attraversamento di varie e profonde pozze ha messo in difficoltà chi non era dotato dell’apposita muta. E’ stato così necessario trovare una via d’uscita lungo il versante sinistro della forra, che è stato risalito con una serie di arrampicate, alcune anche di una certa difficoltà.
Il terzo tentativo è stato quello definitivo. Scesi i vari salti laterali e seguito il torrente per tutto il suo percorso, attraversando vasche, cascatelle, strette gole e passaggi scivolosi, siamo giunti finalmente al lago Tull, dove il corso d’acqua si riversa in un invaso artificiale.
Questa discesa, anche se tecnicamente non risulta la più complessa fra quelle fatte, raccoglie tanti aspetti interessanti: difficoltà nel superamento dei salti verticali, passaggi con tanta acqua, una splendida natura selvaggia ed uno sviluppo complessivo che raggiunge i 5 km. Una bella esperienza, costruita con l’impegno e la voglia di stare assieme, da un gruppo affiatato di amici.

L’immagine ritrae il tratto iniziale della forra del torrente Cosa (Foto Guglia)

Etichette:

 
posted by Paolo at 18:22 | 0 comments
sabato 3 novembre 2007

Oggi, che non scendo più così assiduamente in grotta, penso spesso all’attività fatta negli anni passati ed alle tante cavità che ho frequentato, in esplorazione, per fare il rilievo o semplicemente per puro piacere. E’ difficile fare una graduatoria (ogni buco nel terreno per un maniaco del sottosuolo ha i suoi aspetti positivi), ma cercherò di ricordare le visite che più mi hanno appassionato.

Inizierò parlando delle grotte più belle sotto l’aspetto estetico. Mi vengono subito in mente l’Antro di Corchia (Toscana) ed il suo “gran canyon” (forse perché si è trattato della mia prima vera grotta nel 1973) ed i pozzi terminali del Bus della Genziana (Veneto). Un’immagine particolare che mi sovviene è anche quella del meandro profondo di Castel Sotterra (Veneto), dove ricordo un bel torrente ed i ciottoli di selce nera luccicante, incastonati nelle pareti di conglomerato, ma non posso scordare alcune belle gallerie con acqua nei rami interni del Bus della Rana (Veneto).
Da segnalare anche alcune grotte più piccole ma esteticamente interessanti, come l’Inghiottitoio dell’Arco Naturale (Pradis), oppure la Risorgiva di Mineres (Pielungo). Parlando invece di cavità più classiche, come non pensare a Postummia in Slovenia (non certo la parte turistica, ma i rami interni che permettono di collegarsi alla grotta Nera ed all’Abisso della Pivka), dove ricordo spiaggette di sabbia con numerosi protei (sto parlando di quelli veri e non di quelli ficcati a forza nelle vasche e “cucinati” con le lampade elettriche ad uso e consumo dei turisti) che stavano tranquillamente dormicchiando senza presentare alcuna paura nei confronti di noi speleologi. Molto bella anche la grotta di Castel Lueghi (Slovenia), con dei rami molto estesi ed un arrivo d’acqua interno che risale la montagna fino a quasi uscire all’esterno (la presenza di un copertone trascinato dal torrente indica un sicuro collegamento).
Ci sono poi le grotte ad andamento verticale che possiedono il particolare fascino del vuoto ed a tale proposito mi vengono in mente la Provatina (enorme pozzo della Grecia) ed anche una quasi dimenticata Spaluga di Luisiana (Veneto) che non saprei collocare precisamente, ma che mi evoca particolari sensazioni legate ad un grande ed aereo pozzo.
Non posso dimenticare, certo, le grotte del Canin: non tanto quelle più famose e conosciute, ma quelle più piccole nelle quali abbiamo a lungo cercato le prosecuzioni, come il K7 o il K27, cavità profonde qualche centinaio di metri ma nelle quali si racchiudono tutte le caratteristiche che accompagnano l’esplorazione del fenomeno ipogeo di quell’altipiano (stretti meandri, roccia bianca e levigata, ma anche tanto freddo e fatica…)
Per finire devo necessariamente citare anche alcune grotte classiche del nostro Carso, come l’Abisso di Trebiciano - n. 17 VG (nel quale ho trascorso tantissime giornate della mia vita speleologica), oppure la Fessura del Vento - n. 4139 VG, cavità complessa che si apre nella Val Rosandra. Impossibile non ricordare, infine, alcune cavità minori che, pur essendo molto frequentate, hanno comunque un loro particolare fascino, come la Noè (n. 90 VG) con il suo largo pozzo, le Torri di Slivia (n. 39 VG) cavità nella quale ho lavorato a lungo o la grotta Lindner (n. 3988 VG) che mi ha sempre affascinato per la sua particolare morfologia.
E’ curioso osservare come, pensandoci bene, mi vengano alla mente anche frammenti di ricordi legati a buchetti insignificanti, strette fessure nelle quali abbiamo faticato per avanzare solo di pochi metri, per poi arrendersi davanti a strettoie decisamente impraticabili. Da tutto questo emerge come forse, alla fine dei conti, abbia una sostanziale importanza non solo l’aspetto della grotta, ma anche la compagnia con la quale abbiamo condivisa l’esperienza. Ogni cavità, infatti, è per me indissolubilmente associata a visi e persone, e molto spesso proprio la presenza di questi amici ha fatto la differenza. E’ probabilmente per questo motivo che la speleologia ha rappresentato un valore importante nella mia vita, perché si è trattato sempre di momenti vivi ed intensi da dividere con gli altri.

Nell'immagine si può vedere la mia fidata ed esperta assistente fotografica (quella che recentemente mi ha distrutto il flash al quale ero più affezionato!!) in una bella grotta del nostro Carso (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 17:31 | 0 comments