martedì 25 settembre 2007

Oggi, le scogliere che iniziano in corrispondenza della baia di Sistiana e terminano presso il castello di Duino sono protette ed inaccessibili. Penso che tale iniziativa sia un’idea giusta, vista la particolarità e l’importanza naturalistica del sito.
Ma non è stato sempre così. Un tempo queste falesie erano di libero accesso, anche se la severità dei luoghi limitava decisamente la frequentazione a chi non era disposto a seguire stretti sentierini a strapiombo sul mare. I miei ricordi a proposito si indirizzano verso due situazioni. Inizialmente sono sceso lungo le scogliere solamente per raggiungere il mare e fare il bagno. Si trattava di un percorso ripido e franoso, che permetteva di raggiungere uno specie di scoglio a livello del mare. Era difficile entrare in acqua e non c’era quasi il posto per sdraiarsi, ma lo spettacolo era eccezionale. Mi viene in mente un’uscita pomeridiana con mia sorella Giuliana durante la quale, parlando con i piedi in ammollo, abbiamo aspettato il tramonto prima di risalire verso il sentiero Rilke. In seguito, ho frequentato quelle falesie per arrampicare. Si trattava quasi di una specie di “alpinismo di ricerca”, in quanto avevamo solamente poche indicazioni riguardanti le vie tracciate sulle tante pareti e bisognava ingegnarsi per scoprire - o meglio riscoprire - il percorso seguito da chi ci avevano preceduto. Ho arrampicato varie volte a Duino con Paolo Pezzolato (Fox) e qualche volta con altri amici della SAS. In un caso, arrampicando da primo di cordata con Aldo Fedel, sono anche caduto. Si è trattato dell’unica mia caduta seria da primo e, come spesso succede, il tutto è avvenuto per una stupidaggine. Mentre salivo, mi sono accorto che il bracciale metallico dell’orologio si era sganciato. Sottovalutando il passaggio, mi sono fermato per chiuderlo e, a causa del cedimento di un appoggio, ho perso la presa. Non sono precipitato per molto, forse soli 4 m, ma in quel caso ho potuto verificare di persona l’importanza di predisporre degli opportuni punti di sicurezza anche nei primi metri di salita. Sono finito in un fitto cespuglio di rovi e rammento ancora le risate di Aldo che, dopo aver verificato che non mi fossi fatto male, controllava i miei penosi tentativi per uscire dall’abbraccio spinoso nel quale mi ero dolorosamente infilato. Oggi le scogliere si osservano passeggiando lungo il sentiero Rilke. Quando io seguo quel percorso, però, mi ritrovo a ricordare con piacere quegli anni nei quali era ancora possibile scendere per un veloce tuffo in mare e magari risalire arrampicando, seguendo qualche spigolo a strapiombo sull’acqua azzurra e spumeggiante. Allora eravamo in pochi e non si disturbava l’ambiente più che tanto. Poi c’è stato il periodo della frequentazione di massa, tutti si sentivano esploratori, molti arrampicavano e sullo scoglio a livello del mare si organizzavano perfino festini notturni. E’ stato quindi necessario precludere l’accesso, limitando - per quanto possibile - i danni a questa piccola fetta di natura meravigliosa.

Nell’immagine si può vedere il mitico Paolo Pezzolato (Fox) impegnato in una risalita (Foto Guglia)

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venerdì 21 settembre 2007

Oramai si tratta quasi di una sfida vera e propria: speleologo, tu da che parte stai, lampada carburo o lampada a led? Sei fra i tradizionalisti che ci vogliono vedere bene anche se sporcano un po’ o sei fra gli innovatori che prediligono un’illuminazione diversa e sicuramente più “politically correct”?

Per ognuna delle due soluzioni ci sono pregi e difetti. Sicuramente la lampada a carburo fornisce una luce calda e diffusa, alla quale siamo abituati oramai da anni; nel contempo pesa, puzza, inquina e quando si intasa può portare un sacco di problemi e complicazioni. La lampada a led, invece, non inquina, possiede lunga autonomia, ma fornisce una strana luce bianca, in alcuni casi perfino fastidiosa.
Certo, i tempi stanno lentamente cambiando e la tecnologia offre ogni giorno nuove possibilità. Le moderne fotofore elettriche sono sempre più potenti, con maggiore autonomia e con una temperatura di colore più gradevole alla vista. Personalmente, ho fatto la mia scelta: essendo oramai la mia attività rivolta principalmente alle cavità artificiali ed alle grotte di media difficoltà, non potevo che optare per i led. Più precisamente per una lampada principale alimentata a 4,5 Volt con un superled da 50 Lumen, abbinata ad una seconda lampada con 4 led ad alta luminosità. Due impianti autonomi, utilizzabili singolarmente o in abbinata (normalmente li accendo entrambi, avendo uno luce più diffusa, l’altro più concentrata) con un’autonomia di oltre 10 ore alla massima potenza. Per le mie esigenze, il non plus ultra.
Parlando di illuminazione speleo, mi viene in mente un episodio accaduto nel 1976, durante una visita alla grotta denominata A12, sull’altipiano del Canin. Ricordo bene che eravamo alla base di un pozzo e stavamo trasportando dei sacchi di materiale per progredire ulteriormente nella discesa. Ho perfettamente in mente la scena: la galleria che stavamo percorrendo era caratterizzata da due punti in cui la volta si abbassava, formando una specie di cavernetta. Io passavo i sacchi al compagno che stava in questa saletta, che a sua volta li trasferiva ad un altro amico che era dall’altra parte, dove la volta si alzava nuovamente. Mi vedo ancora mentre sollevo i sacchi e li passo avanti, all’interno di questo passaggio più basso. Ricordo anche quello che è successo subito dopo: mentre mi avvicinavo con un altro sacco, ho visto una forte fiammata che usciva dalla cavernetta. Non un piccolo lampo, ma una vera e propria esplosione, con tanto di botto e di violenta vampata rossastra. Rammento che, a questo punto, non avevamo quasi il coraggio di andare a vedere le condizioni del nostro amico, coinvolto in pieno dall’esplosione (si trattava di Andrea Loretti, conosciuto con il nomignolo di Gobetti). Finalmente dal fumo è emersa una figura barcollante: una testa con i capelli bruciacchiati ed una faccia completamente annerita, meno che in corrispondenza della sagoma degli occhiali. Era successo che uno dei sacchi di materiale conteneva la riserva di carburo, però maldestramente chiusa in un contenitore poco impermeabile. Nella stanzetta c’era, in compenso, una bella pozzanghera di acqua fresca e la fiammella sul casco di Andrea ha fatto il resto. Avevo spesso sentito parlare del potenziale pericolo del carburo e della necessità di maneggiarlo con estrema cura, e in quell’occasione ho imparato molte cose a proposito.
Probabilmente non è stata questa particolare circostanza a farmi decidere, ora, per un’illuminazione di tipo elettrico, ma certo ho ancora ben presente la faccia del mio amico, stralunata ed affumicata dopo l’esplosiva esperienza.

Per quanto riguarda l'immagine, prego sentitamente di osservare solamente la soluzione adottata per l'illuminazione elettrica e di tralasciare la faccia stralunata (la mia) subito sottostante.

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posted by Paolo at 16:05 | 0 comments
sabato 15 settembre 2007

Dopo un periodo veramente duro, ho deciso che per riprendermi un po’ dovevo fare un’uscita in montagna. Trattandosi di un giorno feriale ed avendo bisogno di ragionare su alcune cose, sono andato da solo. Il tempo non era dei migliori e nella mattinata ha piovuto parecchio, ma in compenso ho incontrato poca gente e ho avuto tutto il tempo necessario per pensare ai fatti miei. L’escursione non era niente di speciale, una semplice camminata sui monti dell’Osternig. La cima vera e propria l’ho addirittura tralasciata, in quanto completamente immersa nelle nuvole e quindi con visibilità zero.

Trovato un bel punto panoramico, con il vento che faceva correre brandelli di nebbia fra gli alberi, ho potuto rimuginare su quanto mi era successo negli ultimi tempi. Per prima cosa ho salutato mia madre, recentemente scomparsa. Poi ho pensato al senso della vita, alla futilità di molte cose che ci circondano, alla totale inutilità di ciò che spesso ci sforziamo di ritenere indispensabile. Diamo per scontato che tante circostanze ci siano dovute e quindi concentriamo le energie su falsi obiettivi che spesso sconfinano nel superfluo. Però non è scontata la salute, oggi c’è domani forse no. Non sono scontati gli affetti, assaporiamoli giorno per giorno. Non è dovuta l’amicizia, consideriamola un dono.
Ho quindi pensato alle tante persone che conosco e che stimo, in particolare quelle più giovani. Auguro a loro di riuscire a gioire delle cose belle che hanno, ma nella consapevolezza che forse non dureranno per sempre.
Alla fine, guardandomi attorno, osservando le cime circostanti, le rocce, i boschi, gli alberi, mi sono chiesto perché io mi trovi sempre così bene nell’ambiente naturale, l’unico nel quale riesco a trovare un po’ di serenità quando ne ho bisogno. Ho realizzato che tutto ciò mi è stato trasmesso da mia madre, nata e cresciuta in montagna. La ringrazio anche di questo.

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posted by Paolo at 10:52 | 0 comments
venerdì 7 settembre 2007

Siccome sono stato ripreso che non metto abbastanza fotografie nei vari post che pubblico e che do la preferenza principalmente ai testi (parzialmente è vero), vedrò di rimediare con qualche piccola raccolta di immagini dedicate alle mie ultime uscite.

Inizierò con una serie di scatti fatti recentemente sul cucuzzolo Scalzer , un’altura posta subito a nord di Pontebba, lungo la strada che porta al passo di Pramollo.

Per l'avvicinamento, abbiamo seguito un percorso che ricalca una vecchia strada militare, risalente alla Prima Guerra Mondiale. Oggi, il sentiero è stato segnalato dal Cai e sono state installate delle apposite attrezzature (catene, cavi, scalini, …) per agevolare il passaggio lungo i tratti franati.

Giunti in prossimità dei ruderi degli Stavoli Scalzer, bisogna inoltrarsi nel bosco, seguendo il tracciato delle varie trincee. Appaiono subito le prime lapidi poste agli ingressi delle opere sotterranee realizzate dalle truppe austro/ungariche.

Quasi tutte le opere sotterranee sono tutte abbastanza ben conservate. In una di queste vi sono addirittura delle attrezzature interne in legno, che dovrebbero risalire al periodo del conflitto bellico.

Anche sotto l’aspetto naturalistico tutta la zona è estremamente piacevole, con grandi boschi di faggi e di abeti. Posto fra gli alberi, abbiamo anche visitato un piccolo cimitero sempre risalente alla Grande Guerra.
(Foto Guglia)

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posted by Paolo at 07:00 | 0 comments
giovedì 6 settembre 2007

Ci sono varie attività che permettono di vivere all’aria aperta, in piena armonia con la natura circostante. Una di queste, che ho sperimentato e sulla quale posso testimoniare direttamente, è l’escursionismo con ai piedi un paio di sci da fondo. Ovviamente si parla di un’attività invernale, da praticarsi quando il paesaggio si copre con una bianca coltre di neve. Inizialmente ho provato a fare un po’ di sci da fondo in pista, ma devo dire che - per quanto interessanti siano gli aspetti tecnici legati alle varie andature - si trattava comunque di seguire delle rotaie tracciate da altri. Dopo qualche prova, abbiamo optato, invece, per l’escursionismo con gli sci, ovvero per le attraversate in neve fresca.
In pratica, giunti in un posto dove lo spessore della neve era sufficiente, si sceglieva una direzione, senza troppe salite o discese, e si partiva all’esplorazione. Ci si muoveva, quindi, nei boschi, su dei falsipiani che però presentavano tutte una serie di piccoli ostacoli. Si scendeva nelle vallette, si superavano improvvisi pendii, schivando le radici degli alberi e costeggiando piccoli torrentelli ghiacciati. In certe giornate di sole, era veramente piacevole girare senza una meta, semplicemente adattando il percorso alla configurazione del terreno. Devo dire che, con il tempo, la tecnica e l’esperienza accumulate hanno permesso anche di precedere ben speditamente, con alcune discese in neve fresca di una certa soddisfazione. Poi, quando si superava una certa ora, si ritornava sui propri passi, inventando un nuovo percorso che ci riportava alle macchine. Abbiamo fatto escursioni di questo genere nei boschi delle Alpi Giulie e delle Alpi Carniche, ma anche nelle foreste della vicina Slovenia. Ricordo pure alcune uscite sul nostro Carso: in occasione di qualche copiosa nevicata ci si ritrovava attrezzati con ghette e sci (possibilmente un vecchio paio che si poteva rovinare senza problemi) per disegnare inediti percorsi che ci portavano a superare muretti, scendere nelle doline ed attraversare boschi e lande imbiancate dalla neve. Mi viene in mente, in particolare, un’uscita fatta dalle parti del monte Franco, con discesa a rotta di collo verso la dolina in cui si apre l’abisso di Trebiciano, oppure un’altra bella sciata dalle parti di Basovizza.
Quando penso allo sci da fondo, non mi vengono in mente, quindi, le piste battute dal gatto delle nevi, con tanto di rotaie preconfezionate, ma invece le lunghe escursioni nei boschi di media montagna. Si trattava di una specie di sci/escursionismo, non praticato con le pesanti tavole da sci/alpinismo, ma con quelle ben più leggere e comode utilizzate nello sci da fondo. Al di la di ogni definizione, penso che qualsiasi disciplina che ti porti a fare del sano movimento all’interno della natura sia comunque un’attività degna di attenzione. E devo dire che noi, in quel periodo - con gli sci di fondo ai piedi - di natura ne abbiamo assaporata tanta.

Il controluce a corredo di questo post è stato scattato in occasione di una nostra camminata nella neve con gli sci da fondo ai piedi (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 07:36 | 0 comments
mercoledì 5 settembre 2007

Durante i miei trentacinque anni di speleologia, in certi periodi molto attiva ed in altri più "osservativa", ho fatto un po’ di tutto, alcune cose buone ed altre meno. Qualche mia scarburata è sicuramente ancora presente in certe grotte (risalente a periodi dove tale abitudine era prassi normale), ho scavato e demolito, e talvolta ho danneggiato qualche concrezione per progredire oltre nell’esplorazione. Nella mia carriera c’è, però, un avvenimento di cui, forse in maniera immotivata, sono abbastanza fiero. Non ne avrei certo parlato, se recentemente qualcuno non mi avesse preso in giro relativamente ad una mia supposta incapacità di identificare nuove prosecuzioni ed alla necessità che altri debbano intervenire per risolvere certi problemi esplorativi.
Ma spieghiamo il tutto con calma e precisione.
Intanto identifichiamo il luogo: il fatto si è svolto nella grotta denominata "Torri di Slivia" (n. 39 VG). Per la SAS questa non è stata certo una grotta come tutte le altre. Per anni la mia società ha lavorato nella sistemazione e nel potenziamento delle sue strutture interne per permettere un accesso più facile e tantissime sono state le comitive di studenti (dagli asili alle scuole superiori) che abbiamo accompagnato in questa grotta. Al suo interno abbiamo avviato svariate iniziative rivolte alla divulgazione del mondo ipogeo ed organizzato concerti con tanto di palco smontabile innalzato nella grande caverna. Per chi non conoscesse questa cavità, si può dire che si tratta di un ampio vano adorno di bellissime concrezioni (le "torri" ricordate anche nel nome), che presenta due ingressi: un pozzo naturale di 40 m per gli speleologi esperti ed un ingresso artificiale (realizzato già negli anni sessanta) per i normali escursionisti. Come supporto ai vari lavori intrapresi, abbiamo ritenuto opportuno (nel 1988) predisporre un nuovo rilievo di precisione della grotta. Tali misurazioni sono partire dalla definizione di alcuni capisaldi principali identificati con il teodolite, dal quale si dipartivano poligonali secondarie tracciate con strumenti di uso speleologico. Quest’attività ha visto la presenza nella cavità di una piccola squadra di rilevatori per varie domeniche consecutive ed è durante una di queste uscite che ci siamo accorti di una cosa curiosa. In una giornata di forte Bora abbiamo potuto verificare come da una fessura presente su un’ampia colata calcitica si sprigionasse un possente e rumoroso "soffio" d’aria, che variava d’intensità in diretta relazione con le raffiche esterne del vento. Abbiamo verificato attentamente questo fenomeno che, pur avendo ovviamente origine da qualche pertugio sconosciuto che si apriva verso l’esterno, dava la precisa sensazione di essere collegato anche a dei vani di una certa dimensione. La decisione da prendere era semplice: lasciare tutto come stava, rinunciando magari a qualche decina di metri di nuovo sviluppo, oppure aprire un bel passaggio praticabile all’interno di una colata ricca di colonne, drappeggi e concrezionamenti vari.
Ci abbiamo pensato un po’ e la nostra decisione è stata la seguente: non ne valeva la pena. Ci sono ancora tante grotte da trovare, tante prosecuzioni da identificare, senza andare a demolire una cavità conosciuta da sempre per le sue concrezioni. Ci sono ancora tante fessure soffianti legate a fenomeni profondi, dove l’aria che si sprigiona è legata al "respiro " del mitico Timavo e non certo alle imprevedibili folate della Bora. Abbiamo quindi archiviato questa informazione fra le tante altre che riguardavano la grotta … e gli anni sono passati tranquillamente, finché (nel 1993) un altro gruppo speleologico locale ha rintracciato quella stessa fessura ed ha deciso in maniera diversa dalla nostra.
Devo subito precisare che non intendo condannare o criticare nessuno, e che la demolizione in grotta è attualmente una prassi consolidata che ha dato, in molti casi, grandi risultati. Ho più difficoltà ad accettare il fatto che qualcuno mi abbia evidenziato come, nonostante la nostra lunga frequentazione della cavità, non avessimo mai visto la possibile prosecuzione e che invece altri, in un batter d’occhio, siano venuti, abbiano praticato lo scavo e trovato subito la nuova galleria. Non voglio parlare di etica speleologica, o di coscienza naturalistica, o di altri moralismi del genere: ognuno si gestisca queste cose da solo, come meglio crede ed in completa autonomia. Voglio invece parlare di scelte: noi abbiamo fatto la nostra e questa è degna di rispetto almeno come quella di chi invece ha preferito agire a colpi di demolitore.
Certamente su queste faccende ho la mia personalissima idea e penso che ci debba essere un ragionevole compromesso fra i danni causati, con la rottura di equilibri instauratisi in tante migliaia d’anni, e la smania di trovare ad ogni costo una prosecuzione. Ci sono grotte bruttissime, scavate nella nuda roccia, dove uno scavo arreca pochi danni, specialmente se praticato con intelligenza ed attenzione. Ci sono altre grotte, invece, che per le loro speciali caratteristiche e certamente non solo per la presenza di belle concrezioni, meritano sicuramente più attenzione e rispetto.
Come ho detto prima, non rinnego la scelta fatta allora e, anche se non tutti possono capirlo, ripenso ancora oggi a questa faccenda con un certo senso di orgoglio per la decisione presa. Certo, guardando il buco che c’è ora in mezzo alla colata per accedere al nuovo ramo dei "Grottenarbeiter", mi domando a cosa sia servita tale nostra decisione. Pazienza, la vita, nel bene e nel male, è anche questa …


L
’immagine ritrae la caverna principale, ricca di concrezioni, della grotta denominata "Torri di Slivia" (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 18:26 | 0 comments