giovedì 25 settembre 2008
Ma non si sente il rumore del fiume…” Con queste parole Federico mi ha esternato la sua sorpresa quando, finalmente giunti alla fine dei pozzi verticali, siamo entrati nella grande Caverna Lindner, parte profonda dell’Abisso di Trebiciano. E’ vero, chi ha tante volte immaginato di scendere in questa grotta per incontrare il mitico fiume sotterraneo, spesso pensa ad uno scorrere violento dell’acqua, con rapide, schiuma ed un forte frastuono.
In realtà, il Timavo fluisce ad una quota media di circa 15 metri sul livello del mare, per cui non c’è spazio per salti e cascate, ma solo per uno scivolare lento e svogliato dell’acqua.
Infatti non è il fiume (almeno nelle sue condizioni normali di portata) a caratterizzare questa parte della grotta, ma la vastità della caverna, il vuoto scavato nella pietra, lo spazio conquistato nei millenni dall’inesorabile lavorio della massa idrica in movimento. Quello che colpisce veramente è l’assenza di pareti vicine, l’indefinibilità dei volumi d’aria che ti circondano, la mancanza di riferimenti certi, i suoni smorzati che rotolano lontano e si ricorrono in un brontolio confuso. Secondo me è questa la vera bellezza di questa grotta: una serie di pozzi (spesso anche brutti) attrezzati con cavi e scalette che ti permettono di scendere in profondità e sotto, improvvisa e quasi violenta, la maestosità della grande caverna. Sono sceso tantissime volte e sempre sono stato assalito da queste sensazioni: affacciarsi nel pieno che si è fatto vuoto, in uno spazio ampio ed oscuro che, per quanto preparato, non ti aspetti veramente.

Domenica ho accompagnato due amici sul fondo dell’Abisso di Trebiciano. Spero che abbiano avvertito e compreso anche loro il particolare fascino di questo luogo.

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posted by Paolo at 07:16 | 1 comments
mercoledì 24 settembre 2008
Recentemente sono andato a fare una passeggiata in Carso, lungo il costone roccioso affacciato sulla Val Rosandra, nei pressi del paesino di San Lorenzo. Camminando, ad un certo punto, ho visto un ragazzo con casco, corda ed imbrago, che saliva su una parete. Mi sono così ricordato che, proprio sui roccioni sottostanti il sentiero, si aprono le varie vie delle “Rose d’Inverno”, palestra attrezzata con cavi d’acciaio per l’avvicinamento all’arrampicata su roccia.
Mi ero quasi dimenticato di questo posto particolare che, da giovane, ho frequentato molto. Erano i primi anni ottanta e quasi ogni pomeriggio, per tutta l’estate, ci si trovava con gli amici fra queste paretine. Più che arrampicare, si parlava, si leggeva, si discuteva, ovviamente intercalando anche momenti di salita sulle varie vie presenti. Ricordo alcuni punti di particolare difficoltà, dove si attraversava a pochi centimetri da terra, su passaggi estremi che si ripetevano decine di volte prima di riuscire a superare. C’era un punto di ritrovo basso, quasi alla base della parete, formato da una vasta placca, levigata ed appena inclinata. Lì spesso si leggeva, magari si dormicchiava riscaldati dal sole e, talvolta, una piccola capriola, oramai abituata alla nostra presenza, veniva a trovarci senza dimostrare alcun timore: si fermava a qualche metro di distanza, ci guardava e poi se ne andava senza alcun rumore.
Altre volte ci trovavamo, invece nella parte alta. Sulla sinistra delle pareti attrezzate c’era (e ovviamente c’è ancora) un promontorio roccioso con delle vie abbastanza difficili che, nella parte centrale, presentava un ampio terrazzino liscio e comodo. Da quella specie di belvedere si poteva ammirare sulla sinistra la Val Rosandra, di fronte l’insenatura di Muggia, a destra Trieste, il mare e, in lontananza, fantastici tramonti.
Di quel periodo ricordo la serenità, il tempo che scorreva senza alcuna frenesia e con estrema calma, il fatto che ci si riuniva per arrampicare, ma che, alla fine, si poteva fare anche altro. Si parlava per ore e, certi giorni, si rimaneva invece in silenzio senza scambiarci una parola. C’era amicizia, affiatamento, complicità. C’era lo sforzo fisico quando occorreva - ci si allenava molto - ma, alla fine, si stava semplicemente bene insieme.
Volevo ritornare su quel terrazzino, ma ho avuto un po’ di paura di rimanere deluso. Forse ci andrò con mia figlia…

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posted by Paolo at 06:34 | 0 comments
mercoledì 17 settembre 2008
Ci sono dei luoghi dove l’immaginario la fa da padrone, dove suggestioni ed evocazioni prevalgono sulla realtà e la ragione. Erano queste parole che avevo letto da qualche parte relativamente ad un parco situato nel Lazio. Sculture, mostri di pietra, caverne dall’entrata vagamente antropomorfa: c’erano sicuramente tutte le motivazioni per scatenare il mio interesse.
Così, a conclusione della mia esperienza di documentazione nell’area di San Lorenzo Vecchio, ho approfittato di una mattinata libera e, prima di ritornare a Trieste, sono andato con gli amici a visitare il parco di Bomarzo.
Si tratta di un’ampia area verde, ricca di alberi e vegetazione, che presenta tutta una serie di sculture e costruzioni dai simbolismi più audaci. Realizzata nell’anno 1552 dal principe Pier Francesco Orsini, doveva rappresentare un luogo di meditazione e meraviglia. In realtà si tratta di un luogo ameno e tranquillo, interessato da molte strutture artificiali che richiamano resti architettonici che sembrano ben più datati di quanto lo sia in realtà. Si possono vedere statue che raffigurano mostri, divinità ed esseri mitologici. Ci sono strane fontane, vasche, sedili, mitrei, anfiteatri e piazzali, il tutto realizzato con scavi nel tufo ed utilizzando i più svariati stili artistici. Sembra effettivamente di passeggiare in un’area archeologica che racchiude qualcosa di ben più antico, le varie edificazioni ricordano le rovine di un centro abitato che non c’è più, ma che si conserva parzialmente nelle sue vestigia dirute e sepolte dalla vegetazione. L’effetto scenografico è comunque assicurato. Due costruzioni mi hanno particolarmente interessato. La prima è quella che viene chiamata la “casa pendente”, ovvero un piccolo edificio di tre piani volutamente realizzato senza rispettare la verticalità. Tutto è inclinato, pareti, porte e finestre. Entrando, si perde ogni riferimento. Tutto è falsato dalla mancanza degli allineamenti ai quali siamo normalmente abituati ed il senso dell’equilibrio viene messo a dura prova. Molto particolare! L’altra opera che mi è piaciuta (è quella che più mi interessava e che ben conoscevo) è una specie di grotta scavata nel tufo, con un’entrata simile alla testa di un mostro. E’ la costruzione che viene chiamata “l’Orco”, dotata di bocca, occhi e relativa espressione arcigna. Questa cavità artificiale (per quanto piccola e particolare si tratta sempre di un vano scavato all’interno di un blocco tufaceo) l’ho vista per la prima volta quando ero piccolino, in un telefilm per ragazzi. Il protagonista vagava di notte per un bosco, finché non scopriva questa misteriosa e paurosa entrata che lo conduceva ad un mondo sotterraneo ricco di avventure e colpi di scena. Non voglio dire che la mia passione per il sottosuolo sia nata in quell’occasione, ma forse un piccolo contributo è stato dato anche da quelle immagini.
In definitiva una bella gita in un bosco strano e romantico. Nulla di eccezionale, ma visto che ero in zona ne è valsa sicuramente la pena.

Nell’immagine si vede l’entrata dell’Orco che, alla luce del sole e con la vegetazione curata attorno, ha persa molta della sua ambientazione misteriosa e terrifica (Foto Guglia)

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posted by Paolo at 21:26 | 0 comments
mercoledì 10 settembre 2008
Dalle nostre parti, a Trieste, abbiamo sicuramente la presenza di un buon numero di cavità artificiali. Ci sono acquedotti, pozzi, rifugi e strutture militari, e devo dire che si prova una certa soddisfazione nello studiare tali opere ipogee. Immaginate, però, cosa può sentire uno speleologo locale quando viene immerso in una realtà completamente diversa: un’intera collina trivellata da scavi nel tufo che, con una sovrapposizione strutturale e funzionale che abbraccia quasi 2500 anni, vede l’intrecciarsi di tombe etrusche, possibili opere romane, cripte medioevali e costruzioni rinascimentali.
Ho avuto la fortuna, qualche giorno fa, di poter partecipare ad un campo di lavoro organizzato dal gruppo speleologico Egeria di Roma e sostenuto dalla Commissione Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana. L’area di lavoro si colloca in Lazio - ai confini con la Toscana - nelle vicinanze del lago di Bolsena. Il compito era quello di continuare la documentazione degli ipogei presenti in zona, per definire le caratteristiche delle singole cavità e posizionare tutte queste opere su una planimetria in grande scala.
Anch’io ho dato il mio piccolo contributo, rilevando vari sotterranei e procedendo alla geolocalizzazione di altri.
E’ stato entusiasmante entrare in queste cavità, che magari iniziavano con un ampia stanza adibita recentemente a stalla, per poi sprofondarsi in un susseguirsi di locali e corridoi inclinati per giungere alla camera sepolcrale originale, risalente al periodo etrusco. Alcune di queste tombe, viste le loro caratteristiche costruttive, sono state datate al 8° secolo avanti Cristo, per poi essere oggetto di modificazioni ed ampliamenti fino a due secoli fa. Nei primi anni del 1700, infatti, a causa della presenza della malaria, il posto è stato considerato insalubre e quindi tutto l’abitato (chiamato San Lorenzo Vecchio) è stato traslato in una posizione più arieggiata e salutare, fondando il borgo che oggi viene chiamato San Lorenzo Nuovo. Tutto il paese vecchio è stato quindi abbattuto e smantellato, recuperando per quanto possibile ogni materiale da costruzione. Poi, l’intera area è stata dimenticata.
Oggi, dall’analisi di quello che è rimasto nel sottosuolo, si cerca di ricostruire il centro storico nella sua configurazione originale, posizionando le mura, le porte, gli edifici più importanti e le chiese.
Un interessantissimo lavoro che richiederà ancora molto tempo e tanto impegno e non è detto che anch’io non ritorni a dare una mano.
Per il resto, quasi una settimana di buona compagnia, di lavoro in cavità, di bagni al lago e di mangiate poderose.
Un’esperienza da ripetersi quanto prima.

L’immagine ritrae la mia grande amica Carla, in una delle cavità rilevate (Foto Guglia)

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posted by Paolo at 21:29 | 0 comments