mercoledì 20 agosto 2008
Il racconto che segue ricalca, in qualche modo, alcune situazioni che ho vissuto direttamente: penso che a quasi tutti gli speleologi attivi sia capitato, prima o poi, di confrontarsi con la piena, l’inesorabile alzarsi del livello dell’acqua a causa di una inaspettata pioggia esterna. Nella maggior parte dei casi si esce, magari con qualche bagno di troppo. In altri casi non rimane che sedersi ed aspettare. Nelle righe che propongo, invece, la soluzione sarà del tutto naturale ed inaspettata…

La piena (racconto)

L’acqua saliva inesorabilmente.
Rocco aveva arrampicato lungo quel camino con tutta la velocità che poteva, ma a quel punto la situazione si faceva estremamente delicata. Dopo aver presentato una certa facilità nei primi metri, il passaggio verticale si presentava, ora, privo di appigli e, pur osservando con attenzione le pareti, non si riusciva ad intravedere una linea di possibile salita.
L’acqua, in compenso, cresceva sempre. Non velocissima, ma costante: ancora una decina di minuti ed avrebbe raggiunto la posizione nella quale si era rifugiato lo speleologo.
Lui era entrato in grotta con il cielo terso ed il sole che splendeva ma, da quello che stava vedendo, era chiaro che subito dopo erano arrivate le nuvole ed aveva iniziato a piovere. Sicuramente un maltempo non previsto dalle previsioni meteo e per questo inaspettato e pericoloso.
L’acqua continuava ad incrementare e non c’era altra possibilità che di salire ulteriormente. Rocco puntò deciso all’unico appiglio evidente posto sopra di lui, una specie di piccola stalattite saldata ad una protuberanza della roccia e, facendo forza, riuscì ad issarsi di circa un metro. Uno sforzo per afferrare una lama appena staccata dalla parete ed un ultimo slancio per raggiungere un minuscolo terrazzino sospeso sul vuoto, che rappresentava l’ultima possibilità di alzarsi: appena sopra, il pozzo si chiudeva definitivamente con un soffitto piano e liscio. Il ragazzo cercò, per quanto possibile, di accomodarsi sullo spuntone raggiunto e guardò in basso: la superficie piatta dell’acqua si avvicinava con una velocità che sembrava ancora aumentata rispetto a prima e che si poteva chiaramente percepire: centimetro dopo centimetro, lo specchio rilucente gli correva incontro, senza alcuna incertezza.
Ci vollero circa altri 10 minuti, perché l’acqua riuscisse a raggiungere i suoi stivali, per poi continuare a salire. Rocco, infreddolito, non poté fare altro che osservare, quasi distaccato, come ben presto sarebbe stato raggiunto il soffitto ed il pozzo sarebbe finito completamente allagato.
C’erano già state notizie relative a queste piene straordinarie che, in tempi brevi, riuscivano a sommergere i rami profondi della grotta a causa di un sifone che non riusciva a smaltire l’acqua che arrivava abbondante dall’esterno, ma mai lo speleologo avrebbe pensato di dover verificare personalmente tale congettura. Non c’era più nulla da fare. Il livello dell’acqua salì ancora e raggiunse il petto di Rocco: non serviva a nulla ribellarsi, lottare contro quel destino ingiusto. Forse era meglio lasciarsi andare, accettare in qualche modo il destino e, quasi quasi, assecondarlo, accoglierlo, pensare che, alla fine, forse quello era il momento che era già stato scritto da qualche parte, che - grotta o non grotta - era arrivato, comunque, al capolinea della sua esistenza.
Fu in quel preciso momento che avvenne il miracolo. Con un forte rombo, l’acqua parve sprofondare. Con un vortice prima appena accennato, poi sempre più evidente e ribollente di schiuma, il livello iniziò a scendere velocemente.
In qualche minuto non solo il ragazzo si trovò all’asciutto, ma addirittura, pur sporgendosi per guardare in basso, non riuscì più a vedere traccia dell’acqua. Solo pareti lucide e poche gocce che si rincorrevano sulla asperità della roccia.
Era salvo. Era accaduto qualcosa di misterioso e potente che, all’ultimo momento, lo aveva salvato.
Rocco cercò di pensare, si sforzò di capire ed improvvisamente afferrò cosa era successo. Si raccontava che la grotta nella quale si trovava doveva essere in diretto collegamento con una grande risorgiva posta nella valle sottostante. Per il momento nessuna conferma diretta, in quanto non era stata ancora mai tentata una tracciatura delle acque, ma molti speleologi erano convinti che le due cavità fossero realmente unite. La risorgiva era famosa per il suo particolare funzionamento discontinuo, con emissioni ad intervalli quasi regolari. In molti pensavano che il tutto dipendesse dalla presenza di un “sifone intermittente” che, dopo un periodo di caricamento, riversava improvvisamente tutta l’acqua accumulata, per poi riprendere nuovamente il proprio ciclo di riempimento. Ora la situazione era chiara. L’acqua che scendeva copiosa in profondità in occasione delle grandi precipitazioni veniva bloccata da un sifone dalla particolare configurazione che non permetteva lo smaltimento della portata idrica. Il livello così saliva velocemente fino ad arrivare ad una quota massima che innescava lo scarico improvviso e violento dell’acqua accumulata attraverso lo stesso sifone.
Rocco si era salvato perché si era trovato alla quota giusta e nel momento giusto. Rocco si era salvato grazie ad un processo naturale raro e particolare, che - pur essendo citato in tante pubblicazioni di geologia - presentava pochi casi reali nel mondo.
Lo speleologo decise che avrebbe approfondito meglio questi meccanismi naturali, i misteriosi percorsi dell’acqua, gli equilibri che regolano da migliaia d’anni i flussi idrici sotterranei di questa parte della montagna. Quindi iniziò a calarsi lungo quello stretto camino, pensando che la vita - nonostante qualche piccolo incidente di percorso - era veramente bella…

Etichette:

 
posted by Paolo at 21:47 | 1 comments
domenica 10 agosto 2008
In molti casi lo studio e l’esplorazione delle cavità artificiali è un’attività che può riservare grosse sorprese. Non solo ricerche ripetitive (come i monitoraggi delle acque) o visite in ambienti talvolta degradati dall’inquinamento, ma anche piacevoli sensazioni nel ripercorrere passaggi abbandonati da secoli, o nel scoprire le motivazioni che hanno portato alla realizzazione di particolari sotterranei, che solo all’ultimo momento, attraverso un’attenta analisi, rivelano il loro vero significato. Ti accorgi quindi che, talvolta, anche nei luoghi più frequentati, quelli che possiedono più documentazione e risultano perfettamente conosciuti, puoi fare delle scoperte importanti ed interessanti.
Nel posto dove stiamo attualmente lavorando (nei prossimi post sarò più preciso nel localizzare meglio questi sotterranei che sono ancora oggetto di vari lavori…) abbiamo appena trovato una galleria di collegamento che, pur essendo stata ipotizzata da tempo, non aveva rivelato - inizialmente - alcuna conferma concreta della sua esistenza. Eppure analizzando attentamente le strutture costruttive, le quote, i dislivelli, le direzioni, siamo andati in un punto preciso e proprio lì, con un’insperata precisione, abbiamo trovato ciò che stavamo cercando.
Ma c’è dell’altro. Analizzando vecchie planimetrie, verificando le modifiche apportate negli ultimi duecento anni e cercando di capire come sono state utilizzate nel tempo le strutture sotterranee, ho avuto la sensazione che qualcos’altro non quadrava. In realtà c’era uno spazio fra le strutture delle fondamenta che oggi risultava murato ma che, in passato, poteva essere stato accessibile. Qualche semplice calcolo e sono bastati pochi colpi di mazzetta su una parete intonacata per far emergere il profilo di una porta murata. Dietro l’intercapedine è apparsa un'ulteriore stanza, per il momento occlusa da materiali gettati dall’alto.
Chi poteva immaginare che c’era un ulteriore vano celato. Chi può dire, a questo punto, che non vi siano anche altri ambienti un tempo accessibili ed oggi murati e chiusi. Forse i vari passaggi che uscivano dall’edificio, citati in tanti testi e mai rintracciati, esistevano veramente e sono stati mascherati e resi invisibili ai nostri occhi. Forse c'è molto di più di quello che si può osservare, ma non sempre si hanno gli strumenti per capire quanto è stato mascherato e nascosto.
Altre stanze segrete, magari! Le ricerche continuano…

Etichette:

 
posted by Paolo at 19:10 | 1 comments
domenica 3 agosto 2008
Avevo accennato ad un mondo magico e particolare, avevo evidenziato come l’attività avviata non potesse considerarsi per tutti, avevo indicato come - nel caso in questione - fossero davvero necessarie tante doti, come la costanza, la dedizione, il sacrificio…
Ora posso dire che la “dura realtà” è ancora più “dura” di quella che avevo immaginato.
Essendo libero dal lavoro per alcuni giorni ho pensato di dare il mio contributo allo scavo della Luftlock, grotta timavica nella quale la SAS sta lavorando da qualche anno. Non sono particolarmente allenato, anni di lavoro sedentario mi hanno in qualche modo rammollito, ma penso di riuscire ancora a dare il mio piccolo contributo.
Così, una calda sera di luglio, ci siamo trovati in quattro (Marco, Piero, Fulvio ed il sottoscritto) per una nuova uscita di recupero detriti, da far salire da –40 m alla quota di –20 m. Marco ha detto che si sarebbe trattato, complessivamente, di circa una ventina di secchi.
Pensando alla quantità di materiali che recentemente abbiamo spostato in un altro scavo (svuotamento di una gallerie seicentesca) ed al numero di secchi movimentati di media in una mattina (oltre un centinaio), ho pensato che il mio intervento nella Luftlock sarebbe stato rapido ed indolore, un lavoretto semplice e veloce, ma mi sbagliavo di grosso.
Io, fermo a –20 m alla base del pozzo d’accesso, dovevo sollevare con il verricello elettrico i vari secchi, per poi trasportarli in una cavernetta vicina (a non più di 5 m) e quindi svuotarli.
Le difficoltà sono iniziate fin dai primi momenti: ambiente stretto e fangoso, comando elettrico del verricello laborioso da azionare ed una posizione di lavoro alquanto scomoda. Ma il colpo l’ho ricevuto all’arrivo del primo secchio: in pratica si trattava di una “coso” informe, un blocco di fango che non presentava un sopra o un sotto riconoscibile, estremamente scivoloso e comunque abbastanza pesante. Staccato il cordino dal moschettone del verricello, ho trascinato il secchio fino alla cavernetta, ho sollevato il tutto all’altezza giusta ed ho rovesciato il contenitore. Secondo le mie previsioni, a questo punto, il contenuto del recipiente avrebbe dovuto uscire, ma questo non è avvenuto. Ho picchiato, strattonato, ho persino pensato di aver sbagliato posizione e quindi ho capovolto il tutto, cercando di capire dove era il fondo e dove invece si apriva l’imboccatura. Dopo vari colpi, ho visto finalmente cadere, con estrema lentezza, come al rallentatore, una prima pietra infangata e quindi ho capito in che direzione dovevo rivolgere i miei sforzi. Quindi batti, colpisci e finalmente il contenuto del secchio si è vuotato. Ovviamente solo in parte e quindi ho dovuto raschiare con le mani il viscido contenuto appiccicato alle pareti.
Risultato di questo primo svuotamento: io sudato, sbuffante, infangato in un modo ignobile ed ai miei piedi un mucchietto insignificante di pietre.
Ma questo non è bastato. Nello sganciare quel secchio dal verricello, me lo sono tirato sui piedi, protetti solamente dal sottile strato di gomma dei “trombini”. Mentre guardavo affranto la cavernetta teatro delle mie fatiche, ho sentito distintamente il mio alluce sinistro intorpidirsi in un dolore sordo e pulsante. Ho quindi subito pensato: “Se questo è solo l’inizio, sono fregato…!!!”.
Nonostante tutto, però, sono andato avanti ed ho fatto la mia parte. Almeno, magra consolazione, sottoterra non ho patito il caldo soffocante che regnava all’esterno.
Con quest’ultima stancante esperienza, comunque, non ho potuto che aumentare il rispetto e l’ammirazione che già provavo per chi, con costanza e regolarità, investe il suo tempo libero nell’affascinante ricerca del nostro grande fiume sotterraneo.

L'immagine ritrae Piero alla base del pozzo iniziale (Foto Guglia).

Etichette:

 
posted by Paolo at 10:37 | 0 comments