sabato 30 dicembre 2006

Ho già trattato delle sensazioni che si possono provare rimanendo da soli all'interno di una grotta. In questa occasione riporterò, invece, uno scritto che parla delle impressioni legate ad un altro tipo di ambiente. Quante volte, chi ha frequentato certi sotterranei, ha avuto la sensazione di non essere veramente solo, ma che nell'ombra, appena fuori dal campo di percezione visiva, si trovasse qualcuno, o qualcosa, che lo stava osservando? Probabilmente gioca un ruolo importante la suggestione e l'inconscio meccanismo per il quale, pur non credendo veramente a certe storie o leggende, nel profondo rimane sempre la paura per il buio, per le presenze misteriose, per gli spettri inquietanti del lontano passato. Io, personalmente, queste sensazioni le ho provate svariate volte e quindi ho scritto queste righe di fantasia (ma non del tutto…) riguardanti questo particolare e stimolante tema. Chi ha lavorato con me negli ultimi mesi capirà di che luogo sto parlando.


Un'ombra nel buio

E' saltata nuovamente la luce. Durante i lavori di pulizia di questi sotterranei è successo spesso che il vecchio impianto elettrico evidenziasse la necessità di un suo radicale rifacimento e, giustamente, tale intervento è stato sollecitato nell'unico modo a lui possibile: facendo mancare a tratti la poca illuminazione disponibile. Con due piccoli bagliori, la lampadina opaca che si trova sopra la mia testa si è definitivamente spenta e tutti gli ambienti sono piombati nell'oscurità più profonda. Non si tratta del buio consueto al quale siamo tutti abituati, quello delle nostre città, attraverso il quale cerchi di distinguere sagome e forme, appena disegnate da lontane fonti di luce. In questo caso si tratta proprio del buio pieno ed assoluto che ti avvolge normalmente quando sei sotto terra, quando nessun chiarore esterno riesce a penetrare nella profondità del terreno. Questo tipo di buio l'ho sperimentato tante volte nelle grotte, ma l'ho ritrovato con piacere anche durante le esplorazioni nelle cavità artificiali. Non mi ha mai fatto paura l'oscurità, basta rimanere calmi e tranquilli in attesa che la tua fonte di luce riprenda a funzionare, oppure che qualcuno venga a tirarti fuori dai guai.
L'attuale mancanza di luce nel sotterraneo, quindi, non mi preoccupa, basta sedersi ed attendere che gli amici che sono fuori riattivino l'impianto elettrico. Bisogna solo aspettare, magari imprecando sul perché un esperto speleologo non abbia portato con se, anche in una situazione banale come questa, una sua personale ed autonoma fonte di illuminazione. Mi accomodo sul gradino di pietra ed aspetto.
Attorno c'è un bel silenzio, che pervade questi bassi ambienti scavati tra le fondamenta della chiesa e ricchi di storia ed accadimenti. Mi sono sempre trovato bene in queste stanze sotterranee e non ho mai rivolto particolare attenzione a tutte le leggende che si raccontano a proposito. Si è parlato di prigionieri, di tribunali dell'Inquisizione, di torture e di morti violente. E' stato scritto che questi vani sono stati testimoni di soprusi e sopraffazioni, e che si potevano vedere - incatenati alle pareti - gli scheletri delle povere vittime.
Mi sistemo meglio e, forse in seguito di questi strani pensieri, la pietra sulla quale siedo mi sembra più fredda di prima. Il mio amico Roberto ha detto che, nei luoghi dove è stata esercitata la violenza, il male quasi impregna le pareti ed in alcuni sotterranei questa presenza qualche volta si può avvertire realmente.
Adesso sento dei rumori. Inizialmente avevo percepito soltanto il gran silenzio, immobile sotto le volte oscure, ma ora mi sembra di avvertire dei deboli suoni, forse solo vibrazioni, leggeri movimenti dell'aria che immagino - vista la totale oscurità - sollevino dal pavimento piccoli soffi di fina polvere.
Sono veramente solo, fra queste vecchie mura, o accanto a me vi sono anche le tracce appena percepibili di chi, proprio in queste stanze, ha vissuto e sofferto? E' plausibile che, in particolari situazioni di tormento, qualcuno abbia lasciato un segno del proprio dolore a chi sarebbe venuto dopo, una testimonianza per i posteri fissata nella pietra? Cosa mi stanno comunicando queste pareti, questi duri spigoli, queste nicchie vecchie di quasi quattro secoli?
Guardando davanti a me, credo di scorgere una sagoma, un alone leggermente luminoso al centro della stanza. Forse è solo un'impressione, una sensazione insolita, ma mi sembra veramente di non essere più solo. Chi è questa entità che vuole comunicare con me? Quale legame unisce me stesso, casuale osservatore di passaggio in questi sotterranei, alla presenza che sento di avere davanti? L'ombra, appena luminescente, vacilla davanti ai miei occhi, sembra tremare, viene attraversata da un leggero riverbero sfumato nei vari colori dell'iride e poi … la luce improvvisa delle lampadine che si riaccendono, sembra abbagliante rispetto all'oscurità che la precedeva. Tutto si è dissolto, tutto è tornato alla normalità. Sento le voci degli amici che ridono, che mi chiamano.
Mi allontano da queste stanze pensando che il tempo è un elemento fluido che non sempre si spezza e si interrompe. Talvolta rimane un lungo filo che collega fatti e persone di ieri al mondo di oggi. Ho percepito qualcosa che non ho capito pienamente, ma che mi ha parlato di emozioni ed avvenimenti provati tanto tempo fa.
Ritornerò ancora in questi sotterranei, ma li guarderò in modo diverso. Non solo pilastri e pareti di fredda pietra, ma anche scrigno arcano nel quale, in qualche modo misterioso ed inspiegabile, è raccolta l'essenza di sensazioni, tragedie e sentimenti vissuti in un lontano passato. Sottili messaggi lasciati a disposizione di tutti coloro che, con la dovuta sensibilità, sono disposti a recepirli.

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posted by Paolo at 18:22 | 2 comments
venerdì 29 dicembre 2006

La Società Adriatica di Speleologia ha sempre avuto un particolare rapporto con l'abisso di Trebiciano (n. 17 VG). Questo legame nasce dal fatto che la grotta, da varie decine di anni, è stata presa in affitto dal Rammento come, fra le risate ed i cori, non mancasse mai una bottiglia di buon vino a scacciare dalle ossa il freddo e l'umidità.

In contrapposizione a questi momenti spensierati, gruppo e da allora gestita autonomamente, sia per quanto riguarda gli aspetti tecnici (allestimenti interni) che scientifici (studi ed esplorazioni).
Anch'io ho vissuto molte ore della mia attività speleologica all'interno di questi pozzi ed ho vari ricordi che mi riportano specificatamente a questa cavità. Vi sono due momenti, in particolare, che mi ricordano l'abisso. Il primo riguarda gli anni settanta. Allora ero giovanissimo e non credevo quasi possibile di poter partecipare attivamente all'installazione delle scalette fisse nei primi pozzi. Non eravamo in tanti, mi ricordo il mitico Erwin Pichl e la cara Isabella Abbona, e qualche altro speleo di cui non identifico più il nome. Si lavorava in allegria, spesso di notte, posizionando scale, fissando staffe metalliche e facendo piccole gettate di cemento. mi ricordo anche il lavoro fatto alcuni anni dopo, nel 1990, quando abbiamo avviato le attività per rifare completamente il rilievo della cavità. C'erano varie squadre, ma alla fine la parte più pesante del rilievo e l'attività di coordinamento è stata svolta dal sottoscritto e dall'amico Gabriele Crevatin. Si è trattato di un lavoro lungo, complesso e impegnativo. Non sono mancati i momenti di sconforto quando i vari pezzi del rilievo non combaciavano in alcun modo, ma c'è stata anche tanta soddisfazione quando, in occasione della chiusura della poligonale perimetrale della caverna Lindner, è emerso un errore inferiore al metro (e chi conosce le dimensioni di questa caverna può capire cosa voglia dire).
E' da un po' di tempo che non scendo più nell'abisso di Trebiciano ed ho quindi un pizzico di nostalgia, sia per i bei momenti passati al suo interno, sia per lo spettacolo eccezionale del Timavo che scorre nell'ampia caverna terminale. Devo rimediare al più presto, magari facendo qualche bella foto da pubblicare sul blog.
L'immagine allegata (penso sia una foto Halupca) mi ritrae alla base dei pozzi, alla sommità della collina di sabbia presente nella caverna Lindner.

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posted by Paolo at 17:57 | 0 comments
domenica 17 dicembre 2006

Ho già parlato delle cavità artificiali che, per me, rappresentano qualcosa di speciale.
Dopo aver accennato a quelle che rivestono qualche interesse sotto l'aspetto tecnico, affrontiamo ora quelle che possiedono qualche particolare rilevanza ai fini storici. La scelta è ampia, a causa dei duemila anni di storia della città di Trieste, ma fra le tante cavità io evidenzierei il "Ramo terminale dell'acquedotto romano di Bagnoli" (n. CA 9 FVG-TS). La galleria era citata in vari testi, ma di fatto non risultava più raggiungibile. Durante i lavori di ristrutturazione di un edificio, scavando fra le sua fondamenta, è stato però rinvenuto uno stretto pozzetto che ha permesso di accedere nuovamente al cunicolo. Non si è trattato di una visita particolarmente "salubre", in quanto varie infiltrazioni rendevano l'ambiente non molto piacevole, ma il trovarsi all'interno di una costruzione di origine romana ancora superstite al di sotto del centro storico della città, ha riservato particolari emozioni. In seguito scoprimmo che la galleria era stata in parte rimaneggiata nel corso della seconda metà del 1800, ma questo non ha tolto nulla alle positive impressioni avute nel corso dell'esplorazione.
Cambiando periodo storico, un ricordo piacevole è legato agli studi effettuati all'interno del Castello di San Giusto ed, in particolare, a quelli riguardanti la "Cisterna del piazzale delle milizie" (n. CA 22 FVG-TS). Abbiamo operato a lungo per vuotare questa conserva d'acqua, con due giorni ininterrotti di lavoro delle pompe idrovore, ma alla fine siamo giunti al fondo. Scendendo con le corde i suoi 16 metri di profondità, abbiamo potuto verificare le particolari caratteristiche morfologiche, confrontandole con quelle emerse dai vari documenti che avevamo raccolto. Non è stato possibile completare l'indagine sui detriti del fondo, perché il notevole dislivello ha reso difficile il lavoro delle pompe e non si è riusciti ad abbassare completamente il livello dell'acqua, ma abbiamo trovato alcuni interessanti reperti a testimonianza delle varie vicissitudini vissute dal castello. Ricordo con nostalgia le due nottate passate all'interno del castello, unici ospiti (entusiasti e chiassosi) di quelle vecchie mura.
Se consideriamo invece un'epoca più vicina alla nostra, non posso che indicare una delle tante opere sotterranee antiaeree presenti all'interno del centro urbano. Ve ne sono molte, tutte degne di interesse, ma forse quella più importante è rappresentata dal complesso denominato "Klaine Berlin" (n. CA 34 FVG-TS). Mi ricordo perfettamente come, ottenuti i permessi, abbiamo superato il portone posto lungo la via Fabio Severo. Il primo tratto della galleria era completamente ingombro di materiali vari, raggruppati per tipologia. Dopo aver superato mucchi di fili elettrici, ammassi di tubi di rame, scatoloni di avvolgimenti di motori (si trattava sicuramente di una primordiale attività di recupero differenziato dei rifiuti…) siamo giunti ad una parete trasversale di mattoni, che presentava una vecchia porta di legno. Essendo la serratura chiusa da chissà quanto tempo ed andata persa la chiave, abbiamo "leggermente" forzato il battente e siamo entrati nelle gallerie a monte. Da quel momento in poi, vasti passaggi e lunghi corridoi si sono presentati davanti ai nostri occhi, che non credevano possibile l'esistenza di così ampi vani (sviluppo complessivo 1.100 m) non ancora documentati. In seguito, abbiamo avuto la possibilità di visionare i progetti costruttivi di questo complesso sotterraneo e, con soddisfazione, ho potuto constatare come il mio rilievo eseguito allora corrispondesse pressoché esattamente ai disegni originali. (Foto Guglia)

(Continua …)

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posted by Paolo at 18:05 | 1 comments
venerdì 15 dicembre 2006

Ogni tanto risulta opportuno fare il punto della situazione. Nel mio piccolo, ho quindi provato a fare un primo bilancio della mia creatura: il blog.
Per gestire un blog bisogna avere voglia, energie e tempo, e devo constatare che, almeno per quanto riguarda quest'ultimo, non ne dispongo di molto. Posso riscontrare, comunque, che dal giorno 30 ottobre 2006 sono riuscito a pubblicare ben 21 post, quindi quasi uno ogni 2,2 giorni. Direi che, considerato tutto, non è male.
Ho avuto, invece, una sorpresa per quanto riguarda i temi trattati. Il mio progetto era partito dall'intenzione di predisporre un piccolo diario on line riguardante notizie di speleologia urbana, leggende, immagini, racconti, esplorazioni e sensazioni sulle opere sotterranee artificiali di Trieste (e non solo), con qualche doveroso accenno al mondo delle grotte naturali, come cita il sottotitolo.
Sulla base di queste intenzioni, l'argomento principale avrebbe dovuto essere quello delle opere artificiali della mia città ma, a questo punto, c'è stato qualche leggero cambiamento di rotta.
Nel blog, su 21 testi postati, vi sono 2 di presentazione ed introduzione, 3 riguardano le grotte naturali, 2 si riferiscono a mie pubblicazioni, 4 (compreso questo) riportano considerazioni ed elucubrazioni varie, 3 sono miei racconti, mentre 8 toccano direttamente o indirettamente l'argomento cavità artificiali. Riassumendo, solo 8 post su 21 concernono le opere artificiali e di queste non tutte si aprono nell'ambito urbano della città di Trieste.
E' stato tradito, quindi, lo spirito primigenio del blog?
Non sono particolarmente preoccupato per questo aspetto perché, per quanto riguarda la trattazione di temi specifici sulle CA, ho nella mente testi, idee e progetti per i prossimi 10 anni. Vuol dire, invece, che forse ho centrato lo spirito del mezzo utilizzato, non uno strumento tecnico/formale, ma la possibilità di affrontare i singoli argomenti così come vengono, di discutere semplicemente di quello di cui - di volta in volta - ho più voglia di parlare e di permettermi il lusso di scrivere su cose che forse interessano solamente a me ed a nessun altro.
Il prossimo bilancio fra qualche mese.

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posted by Paolo at 18:33 | 0 comments
sabato 9 dicembre 2006

Sembra che a qualcuno i miei racconti siano piaciuti, per cui insisto. Quello che propongo di seguito è legato ad una particolare storia. L’ho scritto qualche anno fa, in un pomeriggio nel quale anche mia figlia Michela, studentessa delle medie, si cimentava in un compito d’italiano. Una volta completato, sono rimasto abbastanza soddisfatto del mio lavoro e quindi l’ho fatto leggere alla mia amata figlioletta. Sembrava tutto finito lì, ma qualche giorno dopo, Michela è ritornata a casa dalla scuola dicendomi, “Bravo, il tuo compito è piaciuto alla professoressa …”. Immaginate il mio stupore. Era successo che mia figlia aveva consegnato non solo il suo, ma anche il mio testo alla sua insegnante di italiano chiedendo che venisse data ad entrambi una valutazione. Devo dire che il voto è stato più che positivo, ma sono rimasto veramente sorpreso perché avevo scritto quelle righe solo per me e non pensavo di dover sottostare al giudizio di un esperto … Comunque ecco il racconto in questione:

Solo


Non provo più, oramai, alcuna paura. Sono seduto, spalle alla parete, nella posizione più comoda e rilassata possibile, quella posizione cercata con attenzione prima che le tenebre si chiudessero definitivamente su di me. Sono completamente al buio e non posso muovermi, ho un po' di sete e sono solo. In questa strana situazione, il mio stato d'attenzione passa alternativamente dalla percezione del luogo in cui mi trovo - che avverto con nitidezza nonostante la mancanza della più debole luce - all'ininterrotta sequenza di pensieri rivolti verso l'esterno, che mi porta in altri tempi ed altri luoghi. Nell'oscurità, rivedo con chiarezza il pavimento che si allarga attorno a me, con le sue piccole incrostazioni di calcite. Le pareti che si chiudono a volta, delimitando la piccola sala in cui mi trovo. Avverto i ricami pietrificati delle concrezioni, magici incroci che, seguendo il percorso delle gocce, scendono e s'inseguono depositando il loro filo di cristalli. Con un senso di stupore, sono consapevole di riconoscere perfino le forme delle concrezioni circostanti, aiutato dai rumori dell'acqua. La goccia lenta che stilla dalla grande stalattite sulla destra, il ritmo veloce e cadenzato che proviene dalla fessura rilucente di mille sfaccettature nella parete di fronte, il gorgoglio dell'acqua che scivola lungo la colata al mio fianco. Tutto impresso nella mia mente, così come appariva all'ultima luce fioca della lampada, prima che questa si esaurisse del tutto. E poi, quasi in stridente contrasto, il silenzio. Il mormorio lento dell'acqua che viene dilatato dal silenzio e, allo stesso tempo, il gocciolio che quasi amplifica l'assenza di altri rumori che mi circonda. Come rassicurata, la mente vaga ed esce da questa caverna, fluisce fra le fessure della roccia e tracima in superficie. E ritorna ai tempi passati, alle prime esperienze fatte con gli amici alla scoperta delle grotte più facili, alla ricerca di nuovi anfratti, alla discesa di tanti e tanti pozzi. Il piacere del ritrovamento, l'appagamento per aver visto ciò che ancora non era stato visto. Poi, la fase più matura dell'approfondimento, del cercare di capire, di interpretare quello che forse non sarà mai possibile comprendere nella sua interezza. La documentazione degli ambienti quale strumento di conoscenza, l'osservazione per intuire i meccanismi della natura che hanno inciso la roccia, la riscoperta di quanto i nostri predecessori già sapevano e che noi talvolta pensavamo, illusi, di aver compreso per primi. Dopo un certo numero di anni però, come spesso accade, le cose cambiano. Impegni di lavoro, impegni di famiglia, impegni di una vita trascorsa troppo in fretta secondo regole che sembrano sempre più estranee al tuo modo di sentire. In questi casi, forse giustamente, sono le attività meno importanti a dover essere sacrificate, ed ecco che il tempo da dedicare alle grotte si riduce sempre più, a favore di mille altre cose cui non puoi, o non devi rinunciare. Ma la passione, quando ti prende veramente, non ti abbandona più e, sotto sotto, nel profondo, rimane sempre un richiamo che ti attira verso il buio. Ed è così che, di quando in quando, ti ritrovi nuovamente con il casco in testa e gli stivali ai piedi a percorrere gallerie, a cercare fra i massi, a sperimentare un piacere che ritrovi con gioia e che non ti ha mai completamente abbandonato. Ma l'imprevisto è sempre in agguato, oggi come ieri. Chi avrebbe mai immaginato, anche lontanamente, che potesse succedere quello che invece fatalmente è successo? Come potevo pensare, strisciando nel cunicolo di accesso alla caverna, spostando pietre e detriti, che alcuni massi decidessero di spostarsi, probabilmente dopo secoli e secoli, dalla loro posizione naturale? Come potevo pensare che il cunicolo si sarebbe rinchiuso su se stesso, appena un attimo dopo il mio passaggio? Eppure è successo. A nulla sono valse le mie grida e le imprecazioni. Non rimane che aspettare, che gli amici rimasti all'esterno, impegnati nella cavernetta posta ad un centinaio di metri dal cunicolo nel quale sono sceso, si rendano conto del mio ritardo, cerchino nei dintorni fino ad individuare il sacco giallo che ho lasciato all'esterno, capiscano quanto sia successo, scavino la frana e vengano a prendermi. Sono fiducioso. Ci vorrà solo un po' di tempo ed io sono qui, al buio, che aspetto. Oramai, dopo i primi momenti di rabbia e sconforto, sono sereno. E penso agli amici che ci sono stati, a quelli persi perché la vita li ha portati su sentieri lontani ed a quelli che, per la loro gran passione, hanno imboccato vie lungo le quali hanno incontrato una fine prematura (… o un inizio?…). E penso alle montagne di calcare, dove vent'anni fa c'eravamo soltanto noi, a ficcare la testa in ogni buco della roccia spaccata dal gelo, per scoprire se era proprio quello l'ingresso per arrivare all'ampio collettore che porta l'acqua in profondità ed alle grandi risorgive. Oggi, d'estate, c'è troppa gente e troppi gitanti chiassosi si spandono per i bianchi tavolati di pietra alla ricerca di un po' d'ombra per aprire lo zaino e fare merenda. E penso al Carso. Da giovani l'abbiamo attraversato in lungo e largo, per discendere cavità conosciute o alla ricerca di grotte nuove. Abbiamo percorso le pinete, le pietraie, le radure steppose battute dalla bora, ed abbiamo imparato ad amarlo ed apprezzarlo. Oggi ci sono solo recinzioni, confini, roulotte e baracche, gruppi rumorosi in bicicletta e barbecue domenicali, ed il piacere di camminare è venuto meno. E mentre penso, ecco un rumore in fondo alla caverna, un punto di luce intenso nel buio. Qualche altra pietra rotola ed arrivano gli amici, che chiedono, che si preoccupano, che scaricano l'ansia con imprecazioni e rimproveri. Si può finalmente uscire, ed abbandono il pavimento, nuovamente illuminato, che si allarga attorno a me, le pareti che si chiudono a volta, i ricami pietrificati delle concrezioni, spazi e sensazioni che per un breve momento sono stati solamente miei. Si esce, fuori il sole sta lentamente calando e colora di rosso le cime degli alberi. Non so quando ritornerò la prossima volta, quando avrò il tempo per ripresentarmi nuovamente davanti all'imbocco di una grotta.
Dicono che il nero sia il colore della morte ed il buio territorio del male. Per me l'oscurità è sempre stata un rifugio dove pensare, un ambiente accogliente dove riflettere e capire, un posto rassicurante dove trovare me stesso e gli altri. Non so quando ritornerò nuovamente a strisciare in una grotta, ma si sa, non si può stare troppo lontani dal proprio primo amore… (Foto Guglia)

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venerdì 8 dicembre 2006

Sono passati undici anni dall'agosto del 1995 quando, nella lontana isola del Borneo, è avvenuta la scomparsa dello speleologo triestino Walter Maucci. La notizia è passata pressoché in sordina, quasi come logica continuazione di quel silenzio che si era creato negli ultimi anni attorno alla figura di questo importante ricercatore, ma il peso che questo studioso ha avuto nell'ambito della speleologia mondiale rende doveroso tracciare un suo ricordo per le attuali generazioni.
Nato a Vienna il 30 agosto 1922, Walter Maucci inizia, nel 1939, la sua attività speleologica nella Commissione Grotte dell'Alpina delle Giulie. Già in questi primi anni unisce all'attività esplorativa un'innata curiosità, che lo spinge ben presto alla ricerca dei meccanismi che hanno portato alla genesi delle grotte che sta visitando. Si laurea quindi a Torino con una tesi sul carsismo ed al 2° Congresso Nazionale di Asiago, nel 1948, presenta il primo contributo di una lunga serie di lavori dedicati al Carso triestino. Milita nella Commissione Grotte fino al 1951, ma già nel dicembre 1950 diventa uno fra i principali promotori della costituzione, in seno alla Società Adriatica di Scienze Naturali, di una Sezione Speleologica (in seguito Geo-speleologica). La sua concezione della speleologia si rivela fin dall'inizio estremamente chiara ed intransigente: essa deve rappresentare la fusione fra la ricerca ad alto livello e l'esplorazione estrema. E` sulla base di questi principi che Maucci porta avanti la sua ricca attività, fondendo strettamente ricerca ed esplorazione, e raggiungendo grandi risultati a livello nazionale ed internazionale. Poi, improvvisamente, abbandona lo studio del fenomeno carsico dedicandosi, dall'anno 1986, allo studio dei tardigradi diventandone, in brevissimo tempo, un esperto a livello mondiale. Maucci è stato un personaggio che ha ottenuto grandi consensi sia in Italia che in campo europeo e che, in un periodo ben preciso della storia speleologica nazionale, è diventato riferimento stimato in tutti gli ambienti scientifici. Professore di scienze naturali, grande comunicatore, studioso ed esploratore, scienziato più apprezzato altrove che nella sua città, Maucci ha portato Trieste ai vertici della speleologia italiana. Il fatto che oggi siamo forse più conosciuti per il “gran-pampel” che per l'attività svolta, dovrebbe farci sorgere qualche dubbio e spronarci ad un rinnovato impegno.

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posted by Paolo at 17:27 | 1 comments
martedì 5 dicembre 2006

Molto spesso mi è stato chiesto: quale è la cavità artificiale di Trieste che preferisci? In pratica, quale esplorazione ti ha dato più soddisfazioni fra le tante che hai fatto nel sottosuolo della tua città?
La domanda è semplice, ma non altrettanto la risposta. Tutte le visite fatte nelle opere artificiali presentano qualche punto di interesse, sia esso di carattere tecnico, storico o architettonico. Però ve ne sono alcune che ricordo con particolare piacere. Una bella esplorazione è stata quella della "Galleria del Bosco Marchesetti", n. CA 3 FVG-TS. L'unica cosa visibile esternamente era un bacino di decantazione dell'acqua, ma si ipotizzava che ci potesse essere qualche altra prosecuzione alle sue spalle. Abbiamo cercato a lungo finché, vuotando un pozzetto con una pompa idrovora, abbiamo localizzato un basso pertugio semiallagato. Ci siamo infilati in quattro ma, alla fine, siamo proseguiti soltanto in due, strisciando nel fango. Abbiamo così raggiunto una bella galleria ascendente, con ricche colate calcitiche ed acqua in abbondanza. Al di là del limitato sviluppo della cavità (113 m), si è trattato di una esplorazione che io considero una delle più impegnative fra quelle che ho svolto e per questo motivo rimane un punto fermo della mia attività.
Se si parla di fango, però, c'è un'altra cavità artificiale che mi viene in mente. Si tratta della "Galleria delle Sorgenti di Aurisina" (n. CA 97 FVG-TS). L'accesso è avvenuto facilmente attraverso una botola, ma poi bisognava avanzare nell'acqua. Ci siamo quindi dotati di apposite mute stagne e così abbigliati abbiamo affrontato il cunicolo allagato, dove ho avuto il mio primo contatto con quello che - da allora - considero il "vero fango", ovvero gli ingenti accumuli di finissima argilla presenti in questa galleria. In quell'occasione, ho avuto l'opportunità di constatare di persona anche quello che si chiama "l'effetto budino", cioè il particolare comportamento del deposito argilloso che, se colpito con un mano, presentava delle vere e proprie onde che si propagavano lungo l'ammasso gelatinoso. Più che camminare, bisognava nuotare nel fango, cercando di restare a galla e non farsi intrappolare dall'ammasso vischioso. E' stata una bella esplorazione, che oggi non prenderei in considerazione di affrontare se non dotato delle dovute attrezzature.
Un terzo esempio di cavità da citare, sempre rimanendo nell'ambito delle difficoltà tecniche, potrebbe essere quello del "Sotterraneo 1° di via Commerciale" (n. CA 294 FVG-TS). Dopo un breve corridoio era visibile, sulla parete di fondo, un piccolo pertugio (che non raggiungeva i 30x40 cm) che sembrava portare ad un'ulteriore prosecuzione. Abbiamo così provato a scalzare qualche pietra del muro, ma questo è risultato alquanto difficile a causa delle grandi dimensione delle pietre usate per erigerlo. Abbiamo quindi allargato per quanto possibile il passaggio e, senza convinzione, ho provato a passare. Non so come sia riuscito nell'intento, ma dopo sbuffi, contorcimenti ed imprecazioni, mi sono trovato dall'altra parte della strettoia. L'estensione dei vani raggiunti era alquanto limitata, a causa delle fondamenta di un condominio costruito in posizione soprastante, ma la sensazione provata dopo aver passato quell'angusto passaggio, in seguito allargato lavorando da entrambe le parti, mi sovviene ancora oggi. (Foto Guglia)

(Continua …)

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posted by Paolo at 18:44 | 0 comments

P
arlare di grotte e gruppi speleologici vuol dire anche affrontare i particolari risvolti sociologici legati a questo strano ambiente. Frequentare il mondo sotterraneo significa, infatti, anche operare in gruppo, interagire con gli altri ed instaurare un rapporto di fiducia con i compagni di esplorazione. Dalla necessaria serietà che deve essere mantenuta mentre si viaggia sulle corde o nel fango delle strettoie, spesso si passa ad una smodata spensieratezza che esplode non appena ritornati all'esterno. Sono note le proverbiali bevute degli speleologi all'uscita dalla grotta (in qualche caso anche dentro la cavità), che talvolta sconfinano nell'eccesso.
Ho partecipato a tante feste speleo, certe ufficiali ed affollate, altre ristrette e quasi intime. Ho visto gente schiantata dall'alcool ed amici superare passaggi in arrampicata che mai più avrebbero passato in condizioni normali. Ho visto cantare, ballare e gridare. Ho assistito a risse furibonde ed a riapacificazioni quasi commoventi. E tutto questo faceva parte indissolubile dell'andare in grotta. Ho sempre sostenuto il ruolo sociale della bevuta in compagnia, quasi si trattasse di un rito propiziatorio e scaramantico per la futura attività, suggello delle belle cose fatte e compiacimento per l'essere insieme. Penso che la sbornia collettiva attivi al massimo quei meccanismi di condivisione e partecipazione che facevano parte integrante della mia generazione di speleologi. Oggi non so se è proprio sempre così. Vedo ragazzi dediti regolarmente alla bevuta serale, sempre pronti all'ubriacatura quotidiana. Non è più l'occasione a scatenare la festa, ma ha preso il sopravvento la sistematica abitudine a tracannare qualsiasi cosa contenga alcool. Forse è aumentata la quantità di birra, vino e bevande varie che viene trangugiata e probabilmente, in qualche caso, è aumentata anche la capacità di resistenza di alcuni bevitori, ma si è persa completamente la complicità che caratterizzava questi momenti, il fatto che non si beveva con tutti, ma che c'era un particolare significato nell'accompagnarsi proprio con quell'amico ed in quel particolare momento. Non faccio certo il moralista, ho anch'io i miei scheletri alcolici nell'armadio, ma forse il bere - vent'anni fa - era il completamento di qualcosa di più sentito, l'aspetto esteriore di sensazioni e significati più profondi. O forse questi sono solamente i brontolamenti di un vecchio speleologo, che si accorge di come i tempi stanno cambiando …
Nella foto, risalente ad una festa speleo della fine degli anni settanta, si possono vedere Jocia, Mighel, Tam, Giancarlo e Kicca.
(Foto Guglia)

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posted by Paolo at 12:28 | 0 comments