martedì 13 febbraio 2007

Ci sono solamente tre circostanze che mi vengono in mente pensando ai sapori delle grotte, ovviamente non considerando il gusto delle allegre mangiate e bevute doverose ad ogni uscita dalle cavità. La lampada a carburo è uno strumento magico, che in una combinazione quasi alchemica unisci acqua e pietre dallo strano aspetto, per formare un filo di gas infiammabile. Questo fuoriesce da un beccuccio posto sul casco e la fiammella che ne deriva crea una particolare e calda zona di luce attorno allo speleo. Questo, ovviamente, quando tutto funziona per il meglio. In altri casi, però, la lampada si intasa, i collegamenti interni si ostruiscono ed il gas non fuoriesce più da dove dovrebbe fuoriuscire. Il novellino quasi sempre esagera con l’acqua e blocca definitivamente il funzionamento del sistema. Gli esperti, invece, puliscono il serbatoio, controllano attentamente il flusso idrico e, tolto il casco, si impegnano in un bacio profondo con il beccuccio. Si tratta di sturare il forellino, con un azione di risucchio che liberi ogni passaggio dalle incrostazioni. Il risultato è, di norma, qualche sbaffo di colore nero sulle labbra ed un sapore inconfondibile in bocca: un misto di carburo e nerofumo, condito con un po’ di fango ed un leggero retrogusto metallico. Questo, per me, è uno dei pochi, veri e genuini sapori della speleologia.
Un altro sapore delle grotte è quello del fango. Mi riferisco al fango liquido, quello nel quale ti distendi per passare e che ti avvolge nel suo viscido abbraccio. Contorcendosi a terra spesso succede di schizzarsi argilla anche sulla faccia ed in breve tempo questa (l’argilla non la faccia) si asciuga, incrostandosi sulla pelle. Ti resta quindi sulle labbra un sapore strano, che io considero il sapore della fatica, il gusto del guadagnarsi metro dopo metro arrancando in strettoie bagnate ed infangate, solo per vedere cosa si trova dall’altra parte del buio.
L’ultimo sapore è quello cristallino dell’acqua. Le grotte sono state scavate proprio dall’acqua, ma molto spesso questa se n’è andata da tempo, lasciando ambienti oggi completamente asciutti. E’ quasi un incubo la sete che talvolta ti assale dopo la permanenza in grotta di molte ore e non cerchi altro che una piccola presenza fluida sulla parete per ricavarne qualche goccia ristoratrice. Ricordo con particolare intensità una piccola pozza limpida che si trovava alla base del Pozzacchione all’Antro di Corchia, in Toscana. Questa pozza, tenuta pulitissima dagli speleo locali e dotata di alcuni accessori - rammento una specie di pentolino in alluminio dal lungo manico - permetteva di dissetarsi nella via verso l’uscita. Verso il fondo non c’erano invece problemi, perché l’acqua non mancava di certo. Dopo un campo di tre giorni nella cavità ed aver percorso in lungo e largo il ramo degli inglesi, allora appena scoperto, durante il trasporto dei materiali verso l’ingresso sono incappato, quasi per caso, in questa vaschetta e ricordo ancora il sapore fresco, delicato e lieve, di quell’acqua tanto appagante per la mia sete.

Etichette: ,

 
posted by Paolo at 21:16 |


0 Comments: