venerdì 13 luglio 2007
Ci sono delle situazioni nelle quali, quando tutto sembra volgere per il peggio ed il pericolo si fa concreto, scatta la molla dell’autoconservazione. A me è successo, personalmente, più di una volta ed ho scoperto come sia possibile usufruire di un ulteriore “bonus” di energie, anche quando sembra che di queste non ce ne sia più traccia. Un esempio concreto di questo strano meccanismo l’ho sperimentato vari anni fa mentre salivo, in compagnia di amici, su una cima quasi sconosciuta, chiamata Caserine Alte (m. 2.306). Eravamo in tre, io, Giacomo Nussdorfer (Nuss) e Paolo Tamaro (Tam). Dopo aver dormito una notte al bivacco Anita Goitan, siamo partiti per raggiungere questa vetta, lungo un facile percorso di terzo grado. Eravamo abbastanza allenati, per cui non ci siamo legati in cordata. Si procedeva lungo roccette e paretine, che abbiamo affrontato senza particolari difficoltà. Giunti quasi in prossimità della vetta, c’era una specie di canalone da superare, verticale ed alto una cinquantina di metri. Nel frattempo ci eravamo abbastanza alzati rispetto alle ghiaie della base ed i vari passaggi - seppur facili - cominciavano a diventare abbastanza esposti. Non ricordo esattamente chi stava davanti ma, dopo aver risalito quasi completamente il canalone verticale, si stava per uscire su delle cengette laterali. All’improvviso abbiamo udito un rumore strano e, alzata la testa, è stato possibile vedere una piccola frana che dalla sommità del canale scendeva velocemente verso di noi. Si trattava di sassi piccoli, ma anche di qualche pietra di considerevoli dimensioni. Il problema era che noi non eravamo legati, per cui se qualcuno veniva colpito, rischiava di precipitare fino alla base della parete. Nuss e Tam si sono subito riparati sotto a dei piccoli strapiombi sulla sinistra, ma io ero in una posizione molto esposta. Una rapida occhiata alla parete ed ho pensato che l’unica posizione da considerarsi relativamente sicura era una nicchia che si trovava a circa cinque metri sulla mia destra. Con un passaggio atletico ed un rapido traverso mi sono così infilato nella nicchia, mentre i sassi fischiavano tutto attorno. La situazione si è quindi risolta per il meglio, senza problemi per nessuno nonostante un certo spavento. Ricordo che abbiamo anche riso, quando abbiamo scoperto che la frana è stata provocata da un branco di animali: non stambecchi, non camosci, ma semplici capre capitate chissà come su quelle rocce. I veri problemi sono iniziati subito dopo. I due compagni sono risaliti e bisognava attraversare per uscire sul pianoro sommitale: quando ho cercato di uscire dalla nicchia in cui mi ero infilato ho scoperto, però, che non era per nulla facile. Anzi, pur provando e riprovando, non sono riuscito in alcun modo a raggiungere gli amici. Pensando fosse un problema legato allo spavento del momento, mi sono fatto calare una corda di sicura ma, nonostante questa, non riuscivo a spostarmi dalla posizione in cui mi ero infilato. Nel momento del pericolo, ho superato con slancio e facilità quei pochi metri per mettermi al sicuro. In seguito, nonostante tutta la calma e la concentrazione possibili, non ero più in grado di superare quello stesso passaggio in direzione opposta. Una dimostrazione di come l’adrenalina, al momento giusto, possa fare miracoli. Questa avventura mi ha insegnato alcune di cose: innanzitutto bisognerebbe sempre legarsi in cordata. E’ una necessità banale, ribadita da tutti, ma spesso non lo si fa. E’ proprio sulle difficoltà minori che si rischia di più e molte volte in maniera stupida, quindi attenzione e farsi sempre la sicura. La seconda cosa che ho capito, ma si è trattato di una semplice conferma, è che quando meno te l’aspetti, nelle situazioni di estremo pericolo, puoi contare su una marcia in più dovuta al senso di sopravvivenza che ognuno di noi porta dentro di se. La morale, comunque, è che - nonostante questa riserva di energie - è meglio non sfidare troppo la fortuna e prestare sempre la massima attenzione a quello che si sta facendo. L’ultima cosa che ho imparato, infine, è che è brutto morire in montagna, sempre ed in ogni caso. E’ ancora più brutto e fastidioso, però, se la causa della tua fine è rappresentata da un gruppo di maldestre capre che non presta la dovuta attenzione a chi sale lungo la parete sottostante …
L’immagine ritrae il panorama che si può vedere dalla vetta del monte Caserine Alte (Foto Guglia).
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