giovedì 1 febbraio 2007
Talvolta, l’attività speleologica comporta anche lunghe camminate in ambienti difficili. Per trovare nuove grotte, o individuare quelle già conosciute, risulta spesso necessario muoversi in montagna, nei boschi, fra le rocce e lungo i torrenti. Ed è proprio di una visita lungo un corso d’acqua che vi voglio raccontare.
Sarà stato l’anno 1982 ed un gruppetto di tre speleologi stava percorrendo la stretta valletta di un torrente alla ricerca della grotta di Mulin Vecchio. C’eravamo io, Bruno Vittori (Bobo) e Paolo Tamaro (Tam). Lo stretto sentierino che stavamo seguendo si snodava a circa una decina di metri dall’acqua, lungo uno scosceso pendio con alberi e roccette. Aveva piovuto, perciò la terra bagnata e lo strato di foglie morte erano alquanto scivolosi. Si procedeva con attenzione, guardando dove si mettevano i piedi lungo quella pista appena tracciata e, nel contempo, cercando l’imbocco della grotta che volevamo esplorare. Ad un certo punto, però, Bruno ha perso l’equilibrio e, lasciato il sacco che trasportava, ha iniziato a scivolare verso il torrente. Ogni tentativo per fermare la sua caduta è risultato vano e l’amico ha iniziato ad acquistare sempre più velocità lungo il pendio. Probabilmente, il tutto si sarebbe risolto con un arrivo tragicomico nell’acqua, con sollevamento di alti schizzi e risa da parte di chi stava guardando la scena, ma a questo punto è successo un fatto imprevisto. Trasversalmente al pendio c’era un piccolo tronco d’albero e Bruno ha deciso di puntarsi su questo per fermare la sua scivolata. Il risultato è stato, però, leggermente diverso da quanto voluto. Dal mio punto di osservazione ho potuto vedere il malcapitato fare forza sul tronco, fare perno sullo stesso e, alzandosi in un plastico ed ampio volo, puntare verso alcune grosse pietre sul fondo della valletta. L’arrivo nel torrente è stato quindi violento e di testa. Noi due, rimasti sul sentiero, abbiamo così potuto osservare Bruno completamente disteso nell’acqua, con un leggero alone rosso che si allargava attorno. Momenti di tensione nel scendere la scarpata e raggiungere il ferito, metterlo all’asciutto e verificarne i danni. Alla fine solo un profondo taglio al cuoio capelluto, tanto sangue, ma nessuna altra conseguenza. Ricordo, a proposito, un piccolo battibecco fra il sottoscritto e Paolo Tamaro sul fatto che lui aveva un fazzoletto pulito con il quale volevo tamponare la ferita, ma era indeciso se metterlo a disposizione per paura che si macchiasse troppo. Risolto anche questo piccolo ostacolo, non è rimasto che ritornare mestamente verso le macchine, rinunciando all’esplorazione ipogea domenicale.
Questo episodio mi fa riflettere sulle tante situazioni di pericolo in cui si possono trovare gli speleologi, non solo in grotta, ma anche nelle marce di avvicinamento. Se penso a certi percorsi seguiti sul Canin, con zaino ed anche due sacchi di materiali in spalla, lungo crestine taglienti, frastagliati karren, fra fessure, buchi e spaccature varie, devo dire che è quasi strano come nessun - negli anni - non si sia rotto almeno una gamba transitando per questi impervi terreni.
Nell’immagine scattata in quel periodo si può vedere una bella valletta di montagna che abbiamo percorso per ricercare nuove grotte. Non si tratta di quella descritta nel testo, ma le sue caratteristiche ricordano da vicino il luogo dell’incidente (Foto Guglia).
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