sabato 9 dicembre 2006

Sembra che a qualcuno i miei racconti siano piaciuti, per cui insisto. Quello che propongo di seguito è legato ad una particolare storia. L’ho scritto qualche anno fa, in un pomeriggio nel quale anche mia figlia Michela, studentessa delle medie, si cimentava in un compito d’italiano. Una volta completato, sono rimasto abbastanza soddisfatto del mio lavoro e quindi l’ho fatto leggere alla mia amata figlioletta. Sembrava tutto finito lì, ma qualche giorno dopo, Michela è ritornata a casa dalla scuola dicendomi, “Bravo, il tuo compito è piaciuto alla professoressa …”. Immaginate il mio stupore. Era successo che mia figlia aveva consegnato non solo il suo, ma anche il mio testo alla sua insegnante di italiano chiedendo che venisse data ad entrambi una valutazione. Devo dire che il voto è stato più che positivo, ma sono rimasto veramente sorpreso perché avevo scritto quelle righe solo per me e non pensavo di dover sottostare al giudizio di un esperto … Comunque ecco il racconto in questione:

Solo


Non provo più, oramai, alcuna paura. Sono seduto, spalle alla parete, nella posizione più comoda e rilassata possibile, quella posizione cercata con attenzione prima che le tenebre si chiudessero definitivamente su di me. Sono completamente al buio e non posso muovermi, ho un po' di sete e sono solo. In questa strana situazione, il mio stato d'attenzione passa alternativamente dalla percezione del luogo in cui mi trovo - che avverto con nitidezza nonostante la mancanza della più debole luce - all'ininterrotta sequenza di pensieri rivolti verso l'esterno, che mi porta in altri tempi ed altri luoghi. Nell'oscurità, rivedo con chiarezza il pavimento che si allarga attorno a me, con le sue piccole incrostazioni di calcite. Le pareti che si chiudono a volta, delimitando la piccola sala in cui mi trovo. Avverto i ricami pietrificati delle concrezioni, magici incroci che, seguendo il percorso delle gocce, scendono e s'inseguono depositando il loro filo di cristalli. Con un senso di stupore, sono consapevole di riconoscere perfino le forme delle concrezioni circostanti, aiutato dai rumori dell'acqua. La goccia lenta che stilla dalla grande stalattite sulla destra, il ritmo veloce e cadenzato che proviene dalla fessura rilucente di mille sfaccettature nella parete di fronte, il gorgoglio dell'acqua che scivola lungo la colata al mio fianco. Tutto impresso nella mia mente, così come appariva all'ultima luce fioca della lampada, prima che questa si esaurisse del tutto. E poi, quasi in stridente contrasto, il silenzio. Il mormorio lento dell'acqua che viene dilatato dal silenzio e, allo stesso tempo, il gocciolio che quasi amplifica l'assenza di altri rumori che mi circonda. Come rassicurata, la mente vaga ed esce da questa caverna, fluisce fra le fessure della roccia e tracima in superficie. E ritorna ai tempi passati, alle prime esperienze fatte con gli amici alla scoperta delle grotte più facili, alla ricerca di nuovi anfratti, alla discesa di tanti e tanti pozzi. Il piacere del ritrovamento, l'appagamento per aver visto ciò che ancora non era stato visto. Poi, la fase più matura dell'approfondimento, del cercare di capire, di interpretare quello che forse non sarà mai possibile comprendere nella sua interezza. La documentazione degli ambienti quale strumento di conoscenza, l'osservazione per intuire i meccanismi della natura che hanno inciso la roccia, la riscoperta di quanto i nostri predecessori già sapevano e che noi talvolta pensavamo, illusi, di aver compreso per primi. Dopo un certo numero di anni però, come spesso accade, le cose cambiano. Impegni di lavoro, impegni di famiglia, impegni di una vita trascorsa troppo in fretta secondo regole che sembrano sempre più estranee al tuo modo di sentire. In questi casi, forse giustamente, sono le attività meno importanti a dover essere sacrificate, ed ecco che il tempo da dedicare alle grotte si riduce sempre più, a favore di mille altre cose cui non puoi, o non devi rinunciare. Ma la passione, quando ti prende veramente, non ti abbandona più e, sotto sotto, nel profondo, rimane sempre un richiamo che ti attira verso il buio. Ed è così che, di quando in quando, ti ritrovi nuovamente con il casco in testa e gli stivali ai piedi a percorrere gallerie, a cercare fra i massi, a sperimentare un piacere che ritrovi con gioia e che non ti ha mai completamente abbandonato. Ma l'imprevisto è sempre in agguato, oggi come ieri. Chi avrebbe mai immaginato, anche lontanamente, che potesse succedere quello che invece fatalmente è successo? Come potevo pensare, strisciando nel cunicolo di accesso alla caverna, spostando pietre e detriti, che alcuni massi decidessero di spostarsi, probabilmente dopo secoli e secoli, dalla loro posizione naturale? Come potevo pensare che il cunicolo si sarebbe rinchiuso su se stesso, appena un attimo dopo il mio passaggio? Eppure è successo. A nulla sono valse le mie grida e le imprecazioni. Non rimane che aspettare, che gli amici rimasti all'esterno, impegnati nella cavernetta posta ad un centinaio di metri dal cunicolo nel quale sono sceso, si rendano conto del mio ritardo, cerchino nei dintorni fino ad individuare il sacco giallo che ho lasciato all'esterno, capiscano quanto sia successo, scavino la frana e vengano a prendermi. Sono fiducioso. Ci vorrà solo un po' di tempo ed io sono qui, al buio, che aspetto. Oramai, dopo i primi momenti di rabbia e sconforto, sono sereno. E penso agli amici che ci sono stati, a quelli persi perché la vita li ha portati su sentieri lontani ed a quelli che, per la loro gran passione, hanno imboccato vie lungo le quali hanno incontrato una fine prematura (… o un inizio?…). E penso alle montagne di calcare, dove vent'anni fa c'eravamo soltanto noi, a ficcare la testa in ogni buco della roccia spaccata dal gelo, per scoprire se era proprio quello l'ingresso per arrivare all'ampio collettore che porta l'acqua in profondità ed alle grandi risorgive. Oggi, d'estate, c'è troppa gente e troppi gitanti chiassosi si spandono per i bianchi tavolati di pietra alla ricerca di un po' d'ombra per aprire lo zaino e fare merenda. E penso al Carso. Da giovani l'abbiamo attraversato in lungo e largo, per discendere cavità conosciute o alla ricerca di grotte nuove. Abbiamo percorso le pinete, le pietraie, le radure steppose battute dalla bora, ed abbiamo imparato ad amarlo ed apprezzarlo. Oggi ci sono solo recinzioni, confini, roulotte e baracche, gruppi rumorosi in bicicletta e barbecue domenicali, ed il piacere di camminare è venuto meno. E mentre penso, ecco un rumore in fondo alla caverna, un punto di luce intenso nel buio. Qualche altra pietra rotola ed arrivano gli amici, che chiedono, che si preoccupano, che scaricano l'ansia con imprecazioni e rimproveri. Si può finalmente uscire, ed abbandono il pavimento, nuovamente illuminato, che si allarga attorno a me, le pareti che si chiudono a volta, i ricami pietrificati delle concrezioni, spazi e sensazioni che per un breve momento sono stati solamente miei. Si esce, fuori il sole sta lentamente calando e colora di rosso le cime degli alberi. Non so quando ritornerò la prossima volta, quando avrò il tempo per ripresentarmi nuovamente davanti all'imbocco di una grotta.
Dicono che il nero sia il colore della morte ed il buio territorio del male. Per me l'oscurità è sempre stata un rifugio dove pensare, un ambiente accogliente dove riflettere e capire, un posto rassicurante dove trovare me stesso e gli altri. Non so quando ritornerò nuovamente a strisciare in una grotta, ma si sa, non si può stare troppo lontani dal proprio primo amore… (Foto Guglia)

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posted by Paolo at 18:17 |


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