venerdì 30 novembre 2007

Io non entrerò mai in un sifone. Questa è una scelta definitiva ed irrevocabile.
D
evo dire che c’è stato un momento della mia vita durante il quale ci ho provato, nel senso che mi sono imposto di indossare maschera e bombole per affrontare il mondo per me così diverso dell’elemento liquido. I soli risultati raggiunti sono stati, però, una serie di uscite in mare dove la tensione ha superato di certo il piacere dell’immersione e la constatazione che era meglio lasciare agli altri tutto ciò per il quale non si è naturalmente predisposti.

Questo non significa, però, che nella mia carriera speleologica non abbia seguito da vicino il mondo della speleosubacquea. Personalmente, ho fatto assistenza a tantissime immersioni e - tra l’altro - sono stato anche il responsabile della topografia del “Timavo Project”, programma esplorativo avviato nel 1990 alle risorgive di San Giovanni di Duino, che ha visto coinvolti alcuni fra i migliori subacquei operanti allora a livello europeo.
Per quanto riguarda in generale le mie esperienze con i speleosub, ricordo ancora con una certa sofferenza gli interminabili minuti passati con la sagola in mano (allora si usava tenere all’esterno il rocchetto della sagola che veniva via via sfilata al sommozzatore) in attesa che Libero Degrassi e Fabio Longo completassero le prime esplorazione all’Antro di Bagnoli (n. 105 VG).
Ricordo anche altre situazioni, come il forzamento del sifone di entrata all’Abisso di Trebiciano (n. 17 VG) da parte di Gabriele Crevatin (Lele) e Pierpaolo Martellani nell’anno 1977, oppure i seguenti tentativi avviati nelle parti sommerse del Lago Timeus, sempre a cura di Lele.
Ci sono state anche situazioni quasi buffe alle quali ho indirettamente partecipato, come le patetiche manovre dell’amico Libero Degrassi nello stretto sifoncino posto alla base del pozzo di accesso della Fossa di Noglar (n. 243 FR), nel corso delle quali l’unica cosa che si poteva vedere era il sedere dell’esploratore che fuoriusciva dall’acqua limacciosa durante i vari ed inutili contorcimenti per cercare di passare.
Come ricordato prima, di particolare interesse è stata la fase esplorativa del “Timavo Project”, durante la quale ho potuto vedere in azione esperti speleosub provenienti da vari paesi e sono fermamente convinto che, allora, sia stato toccato il massimo limite tecnico raggiungibile in relazione alle caratteristiche delle attrezzature a quel tempo disponibili. Delle esplorazioni subacquee al Timavo, e più in particolare al Pozzo dei Colombi (n. 227 VG), rammento anche un fatto, che mi è servito da lezione: calando i materiali verso il pelo dell’acqua, è saltato un rinvio fatto con una fettuccia su uno spuntone di roccia. La corda, cambiando improvvisamente angolazione e direzione, ha sollecitato in maniera anomala una placchetta di alluminio collegata ad uno spit, che si è spezzata in due parti. Ancora oggi quella mezza placchetta è appesa al mio zaino, per ricordarmi che un ancoraggio mal fatto può portare a risultati molto pericolosi.
Devo riconoscere che sono oramai alcuni anni che non faccio più assistenza agli amici speleosub e probabilmente le attrezzature hanno subito - in questo periodo - evoluzioni tali da essere per me quasi irriconoscibili. Come dicevo, la sola certezza, ora come nel passato, è quella che io debba rimanere sempre fuori dall’acqua, in quanto come ricorda il proverbio “Ciccio no se per barca …” (1).

(1) Per i non triestini, spiegherò che il proverbio citato ricorda come la popolazione istroromena dei Cicci (che viveva nell’interno) non sia mai stata adatta alla navigazione, che veniva invece praticata dalle esperte popolazioni della costa.

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posted by Paolo at 21:30 |


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