domenica 3 febbraio 2008
Ho già ricordato come io abbia iniziato a frequentare le grotte da giovanissimo. Un corso veloce di speleologia con la SAS, qualche cavità scesa per allenamento in Carso e, con l’arrivo dell’estate, visita all’Antro di Corchia in Toscana. A quindici anni appena compiuti, un’esperienza di questo genere può essere esaltante.
Recentemente ho trovato alcuni appunti di allora che riguardavano questa avventura e, leggendo quelle pagine, mi sono ricordato di alcuni particolari che avevo completamente rimosso.
La spedizione è stata così organizzata: partenza da Trieste al mattino presto, breve sosta a Levigliani ed arrivo alle baracche della cava di marmo. Cena e veloce dormita, quindi preparazione dei materiali ed entrata nella “Buca di Eolo”. Da quel momento in poi, solamente una sequenza di spettacolari passaggi: il Gran Canyon, il Pozzacchione, il Pozzo delle Lame, il Portello, fino ad arrivare nella zona del campo. Da questo punto, invece di seguire la via del fondo come inizialmente programmato, abbiamo optato per una visita del “Ramo degli Inglesi”, allora appena scoperto. Gran bella grotta, con pareti levigate e corsi d’acqua, ma anche con gallerie dai ricchi e spettacolari concrezionamenti.
Al quarto giorno, smantellato il campo, sono iniziati la lenta risalita verso l’esterno ed il recupero dei materiali: bisogna evidenziare che a quei tempi si usavano ancora le scale e che quindi i sacchi erano numerosi e pesanti (ricordo alcuni di questi dalle dimensioni esagerate…).
Ci sono, però, due avvenimenti che - pur facendo parte integrante dell’uscita sotterranea - ho sempre tenuto in secondo piano rispetto alle vicende prettamente speleologiche. Penso sia interessante, però accennare anche a queste due circostanze.
Il primo fatto riguarda il nostro incontro con i “fiorentini”. Non ricordo a quale gruppo appartenessero, ma mi sovviene questa provenienza (forse anche sbagliata). Resta il fatto che, ad un certo punto, siamo incappati in questo campo: molto ben organizzato, posizionato in un’area relativamente comoda, con tanta gente e molti materiali. Qualcuno stava facendo da mangiare, mentre altri stavano ancora dormendo. Noi, memori delle attrezzature che avevamo portato da Trieste, siamo stati subito colpiti da una particolarità: quegli speleo non usavano gli scomodi ed ingombranti sacchi a pelo militari che avevamo noi, ma erano attrezzati con multicolori e morbidi sacchi a pelo in piuma di tipo alpinistico (allora una cosa molto rara ed estremamente costosa). Quello che ci sorprese di più è stato, però, il modo in cui queste attrezzature venivano trattate: alcuni sacchi a pelo erano strappati e scuciti, altri semplicemente buttati nel fango, uno addirittura bruciacchiato dal fuoco. Per noi era qualcosa di incomprensibile. Come era possibile trattare in quella maniera delle attrezzature così particolari e costose? La risposta era semplice: il gruppo speleologico era stato dotato di sacchi a pelo in piuma di ultima generazione per effettuare un test di “utilizzo estremo”. Bisognava trattarli malissimo, sfruttarli il più possibile e nelle condizioni più gravose. Non c’erano comunque problemi, per ogni sacco a pelo rovinato e fruttato all’interno della grotta, la casa produttrice - una volta all’esterno – ne avrebbe comunque fornito uno nuovo. In pratica, più si usava male ed intensamente il sacco a pelo, più c’era la sicurezza di riceverne uno ancora imballato in cambio del collaudo effettuato. Non so quali potessero essere i reali accordi fra il produttore ed i collaudatori, ma questo è stato quello che ci è stato raccontato al momento. Per noi, era una vera e propria depravazione trattare in quel modo delle attrezzature che, praticamente, non potevamo permetterci.
Ricordo che quando siamo ritornati al nostro campo ed io mi sono infilato nel mio grosso, scomodo e pesantissimo sacco a pelo militare di costruzione americana, ho pensato come in molte occasioni l’attrezzatura possa veramente fare la differenza e trasformare campi freddi e scomodi in momenti caldi ed accoglienti. Poi ho pensato come, in ogni caso, anche il mio vecchio sacco facesse il suo sporco dovere, anche se con un ingombro maggiore e qualche chilo in più.
Al momento di uscire, ho avuto la tentazione di scavare un buco e lasciarvi dentro il mio sacco a pelo tanto grosso e pesante, ma poi - premendo, strizzando e pigiando - sono risuscito a farlo entrare in un sacco ed abbiamo iniziato la risalita ed il lungo trasporto dei materiali verso l’uscita. Quel vecchio sacco mi è stato compagno fedele in numerosissime altre avventure ed esplorazioni, e solo molti anni dopo è stato sostituito da un prodotto più moderno, leggero e “performante”. Non so dove ora sia finito, ma mi piacerebbe averlo ancora nell’armadio a ricordo dei tanti momenti sereni passati assieme.

L’immagine ritrae il campo dei “fiorentini”. Mi scuso se ho sbagliato la provenienza di questi amici speleo e se qualcuno avrà l'innaspettata sorpresa di rivedersi in quel contesto, ben 35 anni dopo i fatti descritti (Foto SAS).

(Continua)

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posted by Paolo at 15:34 |


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