domenica 3 agosto 2008
Avevo accennato ad un mondo magico e particolare, avevo evidenziato come l’attività avviata non potesse considerarsi per tutti, avevo indicato come - nel caso in questione - fossero davvero necessarie tante doti, come la costanza, la dedizione, il sacrificio…
Ora posso dire che la “dura realtà” è ancora più “dura” di quella che avevo immaginato.
Essendo libero dal lavoro per alcuni giorni ho pensato di dare il mio contributo allo scavo della Luftlock, grotta timavica nella quale la SAS sta lavorando da qualche anno. Non sono particolarmente allenato, anni di lavoro sedentario mi hanno in qualche modo rammollito, ma penso di riuscire ancora a dare il mio piccolo contributo.
Così, una calda sera di luglio, ci siamo trovati in quattro (Marco, Piero, Fulvio ed il sottoscritto) per una nuova uscita di recupero detriti, da far salire da –40 m alla quota di –20 m. Marco ha detto che si sarebbe trattato, complessivamente, di circa una ventina di secchi.
Pensando alla quantità di materiali che recentemente abbiamo spostato in un altro scavo (svuotamento di una gallerie seicentesca) ed al numero di secchi movimentati di media in una mattina (oltre un centinaio), ho pensato che il mio intervento nella Luftlock sarebbe stato rapido ed indolore, un lavoretto semplice e veloce, ma mi sbagliavo di grosso.
Io, fermo a –20 m alla base del pozzo d’accesso, dovevo sollevare con il verricello elettrico i vari secchi, per poi trasportarli in una cavernetta vicina (a non più di 5 m) e quindi svuotarli.
Le difficoltà sono iniziate fin dai primi momenti: ambiente stretto e fangoso, comando elettrico del verricello laborioso da azionare ed una posizione di lavoro alquanto scomoda. Ma il colpo l’ho ricevuto all’arrivo del primo secchio: in pratica si trattava di una “coso” informe, un blocco di fango che non presentava un sopra o un sotto riconoscibile, estremamente scivoloso e comunque abbastanza pesante. Staccato il cordino dal moschettone del verricello, ho trascinato il secchio fino alla cavernetta, ho sollevato il tutto all’altezza giusta ed ho rovesciato il contenitore. Secondo le mie previsioni, a questo punto, il contenuto del recipiente avrebbe dovuto uscire, ma questo non è avvenuto. Ho picchiato, strattonato, ho persino pensato di aver sbagliato posizione e quindi ho capovolto il tutto, cercando di capire dove era il fondo e dove invece si apriva l’imboccatura. Dopo vari colpi, ho visto finalmente cadere, con estrema lentezza, come al rallentatore, una prima pietra infangata e quindi ho capito in che direzione dovevo rivolgere i miei sforzi. Quindi batti, colpisci e finalmente il contenuto del secchio si è vuotato. Ovviamente solo in parte e quindi ho dovuto raschiare con le mani il viscido contenuto appiccicato alle pareti.
Risultato di questo primo svuotamento: io sudato, sbuffante, infangato in un modo ignobile ed ai miei piedi un mucchietto insignificante di pietre.
Ma questo non è bastato. Nello sganciare quel secchio dal verricello, me lo sono tirato sui piedi, protetti solamente dal sottile strato di gomma dei “trombini”. Mentre guardavo affranto la cavernetta teatro delle mie fatiche, ho sentito distintamente il mio alluce sinistro intorpidirsi in un dolore sordo e pulsante. Ho quindi subito pensato: “Se questo è solo l’inizio, sono fregato…!!!”.
Nonostante tutto, però, sono andato avanti ed ho fatto la mia parte. Almeno, magra consolazione, sottoterra non ho patito il caldo soffocante che regnava all’esterno.
Con quest’ultima stancante esperienza, comunque, non ho potuto che aumentare il rispetto e l’ammirazione che già provavo per chi, con costanza e regolarità, investe il suo tempo libero nell’affascinante ricerca del nostro grande fiume sotterraneo.

L'immagine ritrae Piero alla base del pozzo iniziale (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 10:37 |


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