martedì 6 maggio 2008
Domenica, ho avuto il grande piacere di accedere, per la prima volta, al magico mondo di Marco e Piero.
La speleologia è una disciplina multiforme, con tante sfaccettature, competenze e specializzazioni. Si può spaziare liberamente in ognuno di questi campi a seconda del momento e dell’interesse, oppure ci si può appassionare ad uno specifico settore.
C’è chi adora passare ore a rovistare fra le pietre alla ricerca di insetti cavernicoli, chi non si ritiene appagato se non porta a casa almeno 50 m di nuovo rilievo, chi non trova soddisfazione nell’affrontare un pozzo se questo non possiede almeno 100 m di profondità. Sono tutte passioni e personali interpretazioni che, messe assieme, concorrono a formare la “Speleologia”.
Fra le possibili tipologie di uomini di grotta esiste anche quella degli “scavatori”, ovvero degli esploratori che non provano piacere se non si costruiscono, cavando pietra dopo pietra, la loro grotta personale. A Trieste tale tipologia di ricerca è molto utilizzata ed ogni gruppo raccoglie un certo numero di suoi cultori.
Anche l’Adriatica si è impegnata - negli anni - in varie disostruzioni di una certa entità, ma se oggi devo identificare i maggiori esponenti di questa disciplina non posso che pensare a Marco e Piero. Sono anni che inseguono il sottile respiro del fiume Timavo, approfondendo nella roccia uno scavo che progredisce sulla base dei capricciosi flussi dell’aria sotterranea.
Ci sono stati momenti di grande entusiasmo, altri nei quali è stato necessario ricominciare tutto da capo.
Pur frequentando spesso questi due amici, non ho mai avuto l’occasione di accedere al loro “cantiere” e quindi mi ero fatta una particolare opinione. Nel mio immaginario, lavori di questo genere si accomunano a momenti di speleologia eroica, alle gesta di leggendari personaggi che si sacrificano per rintracciare il Timavo di profondità. Sicuramente fatica e tenacia, ma anche lotta risoluta con la dura pietra, che può regalare scorci di estetica bellezza nel frantumarsi delle rocce o nell’allargamento energico delle fessure soffianti.
Ho avuto invece la sorpresa (non necessariamente negativa) di ritrovarmi in un ambiente ben più duro ed aspro di quello che pensavo: il passaggio si infila stretto e sinuoso all’interno di una gigantesca frana, seguendone i passaggi inclinati, assecondando i rapidi cambiamenti di direzione dovuti alla presenza di qualche masso più grande, sprofondando con improvvise discese verticali lungo pareti meglio definite. Ho scoperto che uno scavo come questo non è attività per tutti. Ci vuole costanza, dedizione, sacrificio. Il Carso non si concede a buon prezzo e devi tentarlo giorno dopo giorno, devi conquistarlo metro dopo metro e non è detto che dopo mesi di lavoro il gioco non debba iniziare nuovamente lungo un’altra via.
Se devo descrivere la mia sensazione all’uscita, questa può riassumersi in un’unica parola: rispetto. Rispetto per la roccia calcarea che svela i suoi segreti solo ai migliori, rispetto per chi - affascinato da un’idea - costruisce con pazienza e perseveranza un percorso difficile e duro, ma che alla fine potrebbe portarlo al grande risultato finale: il fiume sotterraneo.
Domenica sono disceso nel magico mondo di Marco ed Piero ed ho capito, ancora una volta, perché la speleologia può essere un’attività tanto intensa ed appagante.

Ho scelto volutamente una foto che non ritrae persone: si vedono solo sassi, ferro e fango, con la luce in lontananza. E’ un’immagine quasi simbolica, uno scorcio di cavità che ben rappresenta la fatica che si sta consumando nello scavo (Foto Guglia).

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posted by Paolo at 06:54 |


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